Da bambino, come tutti della mia generazione, ne ho letti a valanghe, collezionando migliaia di pezzi, poi, appena adolescente, me ne sono allontanato, trovando nel porno fumetto degli anni ’70 un abito più confacente. Lo dico per distinguere lo Sclavi narratore (che ho comunque conosciuto leggendo le pubblicità sui primi numeri di Dylan Dog), da quello sceneggiatore. Detto questo torno alla premessa iniziale: la collocazione di Sclavi nel repertorio di pezzi e miscellanee qui su Mattatoio.
Pur essendomi staccato da anni dallo scrittore milanese (d’adozione), sento che la sola recensione di Nero non basta per rendere giustizia a questo scrittore dimenticato2. Eh sì, perché oggi lo Sclavi romanziere dimenticato lo è davvero. I suoi romanzi usciti per la Camunia (transitati velocemente anche per Mondadori e Rizzoli) sono oggi oggetti scomparsi, esauriti e mai più ristampati. Per esempio l’ultimo romanzo vero e proprio del nostro, Il tornado di valle Scuropasso, uscito nel 2006 nella collana Strade blu Mondadori, è uno dei pochi titoli esauriti da anni di quella collana. I libri di Sclavi, a eccezione di Dellamorte Dellamore3, titolo fortunosamente uscito nel pieno dell’infatuazione nazionale per Dylan Dog, non hanno mai venduto molto. Gli ultimi, passati per i torchi prestigiosi della Mondadori, ben curati e pubblicizzati, sono stati un tonfo assoluto, o così credo.
Il romanzo di cui voglio parlare, è sicuramente uno dei meno facili e commerciali del nostro. Per inquadrarlo mi rifaccio a un saggio fondamentale (credo ancora oggi l’unico) di Daniele Bertusi. La circolazione del sangue risale al 1982 e come quasi tutti i lavori del nostro, senza il successo commerciale del fumetto Bonelli, sarebbe rimasto per sempre tra le ragnatele di un cassetto. La circolazione, presumibilmente, è stato scritto nel corso dell’82, ed è un racconto di difficile sintesi. In poche righe si tratta di un horror psicologico, ma anche di un romanzo giallo, metafisico, surreale, umoristico, pornografico. Il protagonista, Dino (forse un omaggio a uno degli autori più amati da Sclavi, ossia Dino Buzzati) viene ucciso da qualcuno mentre sta scrivendo alla macchina da scrivere. Le 300 pagine (cosa anomala per Sclavi, più a suo agio in cose brevi) vedranno lo stesso Dino, trasformato in un ghost leggero come una piuma, dare la caccia (in modo svogliato) al suo stesso assassino. In realtà, fin dalle prime pagine, Sclavi incaglia il suo racconto, disperdendolo tra le pieghe di altre narrazioni, deviazioni, capitoletti costruiti sul niente. Come più volte ricorda Bertusi, La circolazione del sangue in realtà è un originalissimo horror psicanalitico, scritto dall’autore probabilmente all’inizio della sua lunghissima terapia. Ecco allora che forse le pagine della circolazione appaiono come un qualcosa di intimo, un esercizio privato, mai veramente pensato per una pubblicazione. Libero da qualunque esigenza editoriale, Sclavi scrive quasi senza rileggersi, abbandonandosi a un catalogo, a un cumulo disordinato di frustrazioni, pensieri, immagini, racconti appena abbozzati, fobie e soprattutto sogni fantastici. Nella circolazione riemergono tutte le ossessioni principali di Sclavi (il rapporto conflittuale e frustrante con le donne, la depressione, la paura sociale, i sentimenti di spersonalizzazione e alienazione in una Milano robotica e inquietante, che tornerà identica anche in Nero), qui senza un vero bisogno di spiegarle, di renderle condivise. Il fascino del romanzo è proprio in questa sua forma inconclusa, febbricitante, di appunti fantasmatici, di apparizioni spettrali e gotiche che infestano le pagine ingiallite della mia copia. Appena dopo le prime righe, il protagonista (alter ego dell’autore, scrittore alle dipendenze di una piccola casa editrice milanese, ennesimo inquilino fantasma di una vita che non gli appartiene e da cui vorrebbe uscire) si perde dentro i propri pensieri, i propri dormiveglia di non morto. La sua anima escissa dal corpo inizia una peregrinazione metafisica, una vita in un aldilà che è soltanto un aldiquà grigio e senza affetti. I ricordi dell’infanzia, i rapporti conflittuali con la madre, orrendi ricordi infantili (la storiella del carretto fantasma, due paginette di un gotico perfetto, da racconto delle veglie contadine pavesi), i resoconti clinici della sua malattia, il bisogno, in vita, di praticarsi dei piccoli tagli sulle braccia, e ancora il vagare senza meta e senza più nessuno tra le vie serali di una Milano affollata di ragazze e ragazzi a passeggio, teppisti (figure allegoriche presentissime anche in Nero) e cartelloni cinematografici su cui stornare la propria disperazione.
Le peregrinazioni del protagonista fantasma della “Circolazione” iniziano sabato 29 maggio 1982 e terminano sabato 9 settembre 1983. Siamo all’inizio degli anni ’80, nel cono d’ombra della lotta armata, a un passo dal riflusso, dal rampantismo e dalla nuova voce del padrone socialista[4]. Il mondo esterno si riflette sporadicamente all’interno del romanzo, mondo letterario chiuso, asfittico, occupato interamente dalla “voce” narrante, dai suoi bisogni feticistici e infantili. E così, mentre l’azione delle squadre antiterrorismo falciano ciò che rimane del terrorismo brigatista, Dino assiste curioso alla propria autopsia, all’autopsia del proprio cervello e dei propri sogni. L’indagine vera e propria non prenderà mai piede; sarà soltanto una scusa per tornare indietro coi ricordi, o andare a vedere che fine hanno fatto le donne, le LEI, con cui il protagonista ha avuto delle storie sentimentali. E il catalogo delle donne amate, tutte terribilmente lontane, distratte, identiche e sovrapponibili tra loro, prenderà le pagine centrali del romanzo, mescolando piccole confessioni private a momenti naif di pura invenzione o giochini stilistici. Alcuni capitoletti brevissimi, appaiono come degli inserimenti forzati, pagine di scrittura automatica non lontana da certi passi de L’Oblò spatoliano, altro testo labirintico giocato sul filo dello sperimentalismo e dell’orrido. E così, mentre Dino, continua la sua ricerca interiore di un senso della vita, Sclavi ne approfitta per ritornare sui suoi amori letterari. Qui, come non mai sembra pagare dazio a Dino Buzzati, tanto che le pagine dedicate alle evanescenti figure femminili, ricordano l’amore infernale tra Dorigo e Laide in “Un amore” (1963); e ancora le descrizioni sfuggenti e caliginose del palazzo in cui Dino viveva, sorta di doppio letterario del condominio di fantasmi descritto da Topor nel suo L’inquilino stregato (1964). Si passa attraverso una fantasmagoria di visioni, sogni, ricordi appena abbozzati. Alla data del 26 giugno 1982 si parla di un astronauta che appare nei cieli di Buffalora (nome che ritornerà a fare da sfondo alla vicenda di non-morti di Dellamorte Dellamore), anticipando alcune sequenze chiave dell’ultimo romanzo del 2006 (e non è un caso che compaia anche il nome della Valle di Scuropasso, a segnare una serie di toponimi che continuano a tornare da romanzo a romanzo). Il personaggio di Dino assiste al suo stesso funerale, divertendosi a veder sfilare una carrellata di sue ex; e ancora confessioni personalissimi assolutamente ininfluenti per lo sviluppo narrativo (“Ho bevuto il mio sperma, ho persino pregato una sera”; “Mi divertivo spesso a far credere che ero impotente”). Ogni tanto Sclavi prova svogliatamente a rimettere in moto un’ombra di plot, così vediamo Dino pedinare alcune sue ex, spiarne la vita sentimentale dopo di lui, osservarle mentre fanno l’amore con altri corpi maschili che l’hanno sostituito. Il 3 luglio dell’82 appare un’annotazione interessante, almeno per me. Il personaggio appena seppellito di Dino fuoriesce dalla sua tomba e ammazza brutalmente una coppietta appartata in macchina a fare l’amore. Poi riporta lo sgomento dei quotidiani nazionali, che annoverano il delitto tra quelli già compiuti da un maniaco che sorprende gli innamorati, asportando il pube alle sue vittime. Facile riconoscere un’eco dei delitti del mostro di Firenze, anche perché il 19 giugno di quell’anno era appena avvenuto il delitto di Baccaiano. Ecco come Wikipedia riporta i fatti salienti di quell’omicidio:
L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro. 22 sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto e a inserire la retromarcia. Tuttavia non è in grado di controllare l'auto che attraversa la strada e resta poi bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio. {{cn|Esiste in verità un'altra ipotesi, sostenuta da vari studiosi del caso (tra cui l'avvocato Nino Filastò), che stando alla testimonianza di Allegranti (l'addetto del pronto soccorso della Misericordia che per primo estrasse il corpo dei ragazzi dall'auto) il ragazzo Paolo Mainardi si trovasse anch'egli, come la ragazza, posizionato nel sedile posteriore della Fiat 147. Da qui l'ipotesi che non fu il ragazzo a spostare l'auto e a finire incastrato nel fossetto bensì invece l'aggressore stesso, a seguito del concitato tentativo di allontanarsi quanto prima dal luogo dell'omicidio [46]. In ogni caso, la corporatura robusta di entrambi i giovani (il Mainardi pesava più di 120 kg ed era alto quasi due metri) avrebbe reso difficile all'assassino estrarli dall'auto rapidamente, soprattutto in una zona come quella dove avvenne il delitto.
Dagli appunti di agosto in avanti la scrittura si fa sempre più incoerente e spezzata; la prosa di Sclavi si riempie di elenchi surreali, quasi a richiamare alla mente certi romanzi sperimentali del Vonnegut anni ’70, in particolar penso a La colazione dei campioni (da cui Sclavi deve ispirarsi anche per i disegnini naif e le foto che inserisce qua e là nel suo testo). Vonnegut certo, tuttavia il muro di parole, le ecolalie del testo mi hanno ricordato anche certe pagine del Capriccio italiano e soprattutto de Il giuoco dell’oca (ricco di spunti orrorifici) di Edoardo Sanguineti. In questa seconda metà, quel poco di narrativo si sfalda in lunghi elenchi, cataloghi (“sono affascinato dai cataloghi, perché non bisogna seguire la trama. Il romanzo più bello è il dizionario, perché le parole sono tutte là e per farne un altro non resta che metterle insieme”), ballate, piccole poesie, in un precipitare di sogni, lettere, citazioni caotiche e ricordi stralunati5 che nascondono un affaticamento psichico e una solitudine bruciante da cui non sembra possibile trovare altra via d’uscita se non nella morte (e forse nemmeno in quella).
Romanzo psicanalitico, sfuocato che ha forse un antecedente preciso nel Male oscuro di Giuseppe Berto, sicuramente una delle opere più respingenti (a tratti, nel suo infantilismo o nelle confessioni intime, persino fastidioso) dello scrittore di Broni; ma certi scollamenti psichici, velati riferimenti (una costante dello Sclavi narratore e fumettista) a uno sfaldarsi dei volti (nella Circolazione, pag. 47, Dino ricorda un incontro amoroso con una ragazza; dopo l’atto amoroso, nel carezzarle una guancia, al protagonista rimane in mano un pezzo di carne, un frammento sanguinolento, uno scollamento della maschera di carne sul volto di ognuno di noi) sembrano rimandare involontariamente a quella crisi della presenza indagata dall’ultimo De Martino, al punto da far assomigliare l’apocalisse oltretombale di Dino a quella psicopatologica indagata nel bellissimo (e incompiuto) La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, Torino, 1977; poi restaurato recentemente sempre dall’Einaudi); nel libro di De Martino, come in quello di Sclavi, si assiste a uno scollamento all’interno della civiltà moderna e contemporanea, a una perdita progressiva del senso della propria storia personale e della Storia (con la “S” maiuscola) in cui le nostre vite sono inserite; la fine del mondo si configura come una reazione psichica allo smarrimento culturale e collettivo dell’identità dell’uomo Occidentale. A questo proposito sarebbe interessante sapere se Sclavi conosceva l’antropologia politica di De Martino? Restiamo alla Circolazione e concludiamo: alla fine, quel poco che rimane del plot viene risolto in un capitoletto di poche righe, in cui la voce narrante svela chi lo ha ucciso e perché, vanificando del tutto l’interesse vano per un senso, per la ricerca di una conclusione. La negatività pura del romanzo è lontanissima dal buonismo dei fumetti di Dylan Dog.
Oggi, a 26 anni dalla sua pubblicazione per Camunia e a quasi quaranta da quando è stato scritto, La circolazione del sangue appare ancora come un libro mal digerito, che nemmeno le mode dei “Cannibali” o del “pulp” degli anni zero son riuscite veramente ad assorbire. Credo che la colpa sia proprio in questa sua negatività di fondo, nel pensiero costante per la morte e l’inutilità della vita, poco alleggerito da un umorismo qui smorzato, crepuscolare e quasi mai veramente divertente. Un bisogno di dormire/morire che a Michel Mari appare come “un desiderio di pace e di silenzio, nella fantasia di Sclavi, che fa del suo sentimento della morte qualcosa di necessitato, e felicemente immune dalla posa o dalla ricerca dell’effetto”. Oggi, dicevo, qualcuno ha provato a scrivere cose su questi territori inesplorati. Penso all’Antonio Moresco di Canti di D’Arco, o al Ligotti di Il mio lavoro non è ancora finito, thrilling metafisico, horror esistenziale su un contabile che, da un aldilà simile a quello immaginato da Sclavi, torna per compiere un’orribile vendetta contro i colleghi di lavoro. In realtà Ligotti, sul pessimismo contemporaneo, scriverà pagine non lontane da quelle dello Sclavi del 1982.
Ecco un estratto illuminante da La cospirazione contro la razza umana (2010):
Quando le marionette hanno finito il loro spettacolo, tornano nei loro bauli. Non si siedono a leggere un libro, scorrendo ogni parola con le biglie dei loro occhi. Sono semplicemente oggetti, come un cadavere nella bara. Se dovessero prendere vita, il nostro mondo diverrebbe un paradosso e un orrore in cui tutto sarebbe incerto, inclusa la nostra certezza di essere o meno delle marionette umane.
In ultima analisi La circolazione del sangue altro non è che una confessione dalle cripte dell’inconscio sulla pulsione di morte: “e questo racconto non è altro che uno degli infiniti racconti delle mie infinite morti, nella vana speranza che l’inizio raggiunga la fine”. L’ultimo appunto, del 3 settembre 1983 si preoccupa che nemmeno la morte possa essere davvero la fine di tutto: “E pochi istanti dopo, mentre una minuscola supernova si accende là in fondo tra gli occhi e subito si spegne, sono certo che io morto, sarò uno dei miei pensieri”. A rilanciare queste conclusioni arrivano quelle ancor più spiazzanti di Ligotti che, alla fine del suo saggio filosofico/narrativo, scrive una sorta di parafrasi al testo sclaviano: “Verrà per ciascuno di noi – e poi per tutti noi – un giorno in cui con il futuro avremo chiuso. Fino ad allora l’umanità si farà una ragione di qualsiasi orrore bussi alla sua porta, come ha fatto sin dal primo istante. Andrà avanti così, sempre, a esaurimento. E l’orrore andrà avanti, mentre le generazioni cadono dentro il futuro come corpi in una tomba aperta. L’orrore che abbiamo ricevuto sarà ricevuto da altri in uno scandaloso passaggio di eredità. Essere vivi: per decenni svegliarsi all’ora giusta, e poi trascinarsi lungo l’ennesimo giro di umori, sensazioni, pensieri, voglie – l’intero spettro delle agitazioni – e infine crollare a letto a sudare nel buio del sonno profondo o bollire al fuoco lento delle fantasmagorie che molestano la mente in sogno. Perché tanti di noi, con il cappio al collo o davanti alla canna del fucile, preferiscono l’ergastolo?”.
Parliamo di Dellamorte Dellamore, scritto da qualche parte nell’83. Come sempre la genesi è difficile; nel leggerlo però si ha ormai la sensazione che Sclavi abbia perso l’ambizione di pubblicare, dedicandosi a testi che non usciranno più dai suoi cassetti. Se La circolazione era un pasticcio scombinato di psicanalisi, giallo e confessioni sentimentali, questo nuovo lavoro è un abbozzo minimale che gioca coi linguaggi del fumetto e delle sceneggiature. Più che un lavoro letterario, Dellamorte si presenta infatti come un prodotto perfetto per essere intercettato da altri linguaggi, altri media. Peccato che Sclavi lo distrugga dall’interno, svuotandolo completamente di un plot. A differenza della pellicola cinematografica, Dellamorte è un non-romanzo costruito su alcuni capitoli quasi indipendenti l’uno dall’altro, legati tra loro dalle figure principali del becchino scarno e laconico e del suo assistente minorato. Andiamo con ordine. Non starò qui a riassumere la trama del libro. Un paesino degli anni ’60, la maggioranza della popolazione composta di piccoli commercianti, impiegati, contadini, operai, un tessuto economico e sociale indagato anche nei romanzi del (quasi conterraneo) Lucio Mastronardi (altro grande nell’atlante degli scrittori dimenticati della nostra letteratura); un’epidemia non spiegata di morti viventi, un becchino, un mix di battute demenziali e adolescenziali nel tipico stile dell’autore di Broni. L’interesse sta in quel 1983.
Nella trama principale Sclavi sembra guardare a Zeder di Puoi Avati (là erano gli alchemici terreni K a far resuscitare i morti), uscito nelle sale nell’agosto di quell’anno. Oltre al film avatiano, la mente corre al romanzo Pet Sematary di Stephen King, uscito in prima pubblicazione nell’autunno dell’83. Non conoscendo le date di lavorazione del romanzo di Sclavi non posso far altro che immaginare che in qualche modo questi due lavori lo abbiano influenzato in qualche modo mentre procedeva al suo libro. Per il resto Sclavi si misura con un tema all’apparenza poco frequentato dalla nostra letteratura. I morti viventi, per rimanere agli ultimi 200 anni, mi fan pensare alle Operette Morali. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie del 1824, un racconto filosofico, un dialogo morale che principia con una grande finzione narrativa, ossia l’anno matematico che riporta in vita i morti. La cornice è già precisa: la notte, coi suoi umori gravidi di tomba, uno scienziato, i suoi preparati anatomici, le mummie pietrificate. La congiunzione astrale, su cui gli antichi hanno scritto tante cose, un anno grande e matematico (equivalente della sonda per venere di John Russo) che ridesta i cadaveri. E li ridesta ovunque, in ogni cimitero, in ogni sepolcro, in qualunque luogo e per un quarto d’ora. Un talking dead cronometrato. Era il 1824, appunto. Era Leopardi, non Romero, eppure. Affascinanti infine le analogie tardo-gotiche del racconto con il dottor Sturges (il Klaus Kinski del bellissimo La morte ha sorriso all’assassino, film ibrido del 1974 di Aristide Massaccesi) affaccendato nel suo laboratorio/cantina in strani esperimenti per riportare in vita i morti. E se anche il suo segreto risiedesse nell’anno grande e matematico?
I morti viventi italici fanno capolino in un romanzo di fantascienza di Giuseppe Pederiali, nella collana I romanzi dell’orrore della Edifumetto di Barbieri, Ladri di cadaveri. Il libro è del Marzo del 1976. Pederiali aveva già pubblicato il romanzo con un altro titolo nel 1974, per la Campironi, Venivano dalle stelle, di cui ci ha già parlato sempre il "solito" Boschini. Si tratta infatti di una storia di fantascienza che riprende gli spunti dei primi zombi sci-fi, quelli di Assalto dallo spazio del 1959. La seconda parte del libro ricorda molto L’invasione degli ultracorpi. Sicuramente il modello non era la notte di Romero. Degli Ufo incorporei, puri impulsi elettromagnetici, vagano per l’Universo in cerca di corpi da abitare. Incappano nella terra e l’invasione ha inizio. Solo che è indolore: gli alieni possono prendere possesso unicamente dei corpi defunti, non abitati da una coscienza vigile. Una piccola cittadina americana da sfondo. Un bimbo che asserisce di vedere nei campi la madre appena morta. Figure deambulanti di annegati che s’aggirano nell’aia e divorano rospi. Queste le prime bellissime pagine atmosferiche del libro.
Sempre del 1976 è La piramide degli zombi di Hubert Sanchez, alias Mario Pinzauti, nella collana I racconti di Dracula n. 90, copertina di Mario Caria. Una spedizione scientifica nella giungla peruviana guidata da Humbert Sanchez. L’incipit è puro cannibal movie, con tarantole, serpenti e altre schifezze a intralciare il passo di tre ricercatori e 2 avvenenti studiose. Aggiungiamoci i portatori indigeni e abbiamo una situazione che anticipa di molto il film Zombi Holocaust. Il gruppo trova delle strane rovine nella giungla e anche una piramide dalla quale fuoriesce un’ossessionante melodia di tamburi. Il gruppo pensa bene di accamparsi nei pressi della piramide e s’appresta a passare la notte con una bella orgetta da pornofumetto. Poi gli zombi fuoriescono dalla piramide: sono nudi, coi capelli lunghi e stopposi, armati di clave. Ancora la musica dei tamburi. Lotte con la spedizione. Poi Pinzauti si lancia in una digressione filologica intorno alla parola zombi, coniugando la tradizione vudu agli studi di fanta-archeologia di Peter Kolosimo con gli Incas e i figli delle stelle, gli UFO. Gli zombi di Pinzauti, rispetto a quelli di Pederiali, rassomigliano maggiormente ai living dead che vedremo sugli schermi dal 1979 in poi. Sono antropofagi e spaventano persino le tribù di cannibali che infestano la giungla. Un altro punto di forte interesse è la spiegazione dei morti, affidata a un lungo flash back in cui scopriamo che Hubert Sanchez è la reincarnazione di un capitano spagnolo, un conquistadores che s’era avventurato coi suoi uomini nella giungla per depredare la piramide dai suoi tesori favolosi e sterminare gli indios. Alla fine il capitano Sanchez viene posseduto dal Gran Sacerdote e si schiera dalla parte dei primitivi, col risultato di farsi ammazzare dai suoi stessi soldati. E sarà la medesima brama di tesori a distruggere la nuova spedizione archeologica.
Saltiamo qualche anno.
Dal 1979 in Italia, i morti risorgono.
Magari per colpa del vudu.
O per una iscrizione etrusca.
O per nubi radioattive.
Per gli psicopompi.
Per degli ultrasuoni.
Nel 1984, invece, esce nella prima edizione Feltrinelli, Magia Rossa di Gianfranco Manfredi, romanzo che verrà ristampato nei primi novanta negli Oscar Mondadori e poi restaurato nella splendida versione della Gargoyle del 2006 con postfazione colta dell’autore medesimo, nella quale è possibile ricercare gli aspetti più originali dell’opera, ossia quel lavoro sulla cornice romanzesca da gotico moderno. Magia Rossa, insieme al libro di Sclavi a cui accenneremo tra poco, è il romanzo sui living dead italiani maggiormente originale, per nulla derivato dalle trame simil Romero di tanto nostro cinema. La forza del libro è nella scrittura fortemente letteraria e per nulla cinematografica, a sua volta infarcita di scritture (finte lettere, articoli e recensioni in un italiano ottocentesco, dialoghi raffinati, colti, che spulciano argomenti inediti: scapigliatura, archeologia industriale, alchimia, occultismo, luddismo psichico). Manfredi, anziché mettere in scena i soliti giovani scemi da film dell’orrore odierno, studia nuove strade, cita a proposito Marx e lo lega a presunte civiltà perdute alla Kolosimo. Il risultato è un romanzo veloce e sorprendente, dotato di una forza letteraria di raro spessore e intelligenza.
E Tiziano Sclavi?
Dal punto di vista narrativo (per quel poco di plot) Dellamorte Dellamore6 si presenta come un romanzo maggiormente vicino al modello romeriano. Come sempre in Sclavi l’originalità non è tanto negli assunti narrativi, quanto nello stile, qui estremizzato, poco sviluppato, una sorta di appunti per una sceneggiatura che non verrà mai filmata. I morti di Sclavi (ma c’è poca differenza coi vivi) si caricano di una malinconia oltretombale, conferendo al paesino di Buffalora e al cimitero, una a-temporalità tipica del cinema gotico nostrano. I vivi e i morti del romanzo condividono uno spazio liminare, una sorta di purgatorio narrativo come sempre riempito dalle medesime ossessioni dello scrittore (l’ossessione per le figure femminili, ormai del tutto indistinguibili tra loro, l’insensatezza di fondo della vita, il pessimismo cosmico, la paura di vivere, la paura degli altri). Anche il cimitero di Buffalora si trova nei pressi di una collinetta, ma a differenza del purgatorio medievale, questo non è un luogo di transito, un passaggio verso qualcosa d’altro. Dalle pagine di Sclavi, i suoi personaggi non riescono a trovare una via di fuga, una fine all’agonia dei loro pensieri, della loro infelicità, della loro noia. Tuttavia, le citazioni poste in esergo del testo, le brevi ballate poetiche all’inizio di ogni capitolo, le illustrazioni originali di Angelo Stano sembrano avvicinare il libro all’iconografia macabra dei trionfi della morte, delle danze macabre, dove per la prima volta il tema iconografico dei vivi e dei morti viene sviluppato come una processione di individui sociali accumunati dall’inevitabile abbraccio con la putrefazione e il disfacimento collettivo del corpo. In alcuni trionfi è possibile vedere già il nocciolo di tutte le albe dei morti viventi a venire, in particolare nell’affresco di Giovanni Todisco in quel di Sant’Arcangelo di Potenza (1545), dove un gruppo di morti assalta alcuni viventi. E da questa iconografia si possono citare in ordine sparso Petrarca, San Francesco, Dante, soprattutto il Boccaccio della novella di Nastagio degli Onesti (probabilmente spunto melodrammatico alla base di buona parte dei gotici italiani degli anni ’60), e ancora le fantasticherie sulla putrefazione e la carne di Iacopone da Todi, fino alla negatività assoluta e la visione di un mondo estraneo e nemico dei Catari…
Come ultima annotazione segnalo ancora un richiamo alla vicenda del mostro di Firenze. A un certo punto del romanzo (cosa che Sclavi riprende, in modo parzialmente censurato, anche per lo speciale estivo del fumetto e che invece viene espunta dal film) il becchino sorprende una coppietta appartata in macchina (in realtà amoreggiano in un campo di trifogli, ma la vettura è lì vicino, quindi sempre di camporella si tratta); ammazza subito a revolverate lui, poi violenta e ammazza lei. In quell’83 il mostro di Firenze sarebbe tornato a colpire a Giogoli.
Non è successo niente (1988)
Non è successo niente è il penultimo romanzo scritto da Tiziano Sclavi, uscito dai prestigiosi torchi della Mondadori nel 1998. Il libro, scritto nel corso del 1997, è il seguito del precedente Le etichette delle camicie. Questi ultimi anni dei ’90 rappresentano una ripresa (personale e artistica) per lo scrittore pavese. Le oltre 400 pagine del romanzo sono un’eccezione luminosa: dedicato alla moglie, grafica di copertina che omaggia Topor (autore di riferimento del nostro7), molti personaggi e vicende che si intersecano tra loro, ispirandosi alla realtà dell’autore e ad altre fantasticherie.
Non è successo niente mescola come sempre finzioni e realtà, al punto da rendere entrambe inestricabili. Cercando di semplificare diremo che i piani del racconto sono almeno due: lo scrittore Cohan e lo sceneggiatore di fumetti Tom. Entrambi sono delle emanazioni dell’autore: Cohan rappresenta lo Sclavi contemporaneo del romanzo, un uomo di 45 anni che è finalmente riuscito a disintossicarsi dall’alcool e pare uscito dal lungo corridoio della malattia psichiatrica. Tom, invece, rappresenta lo Sclavi dei primi anni ’90, quando, all’apice del successo come sceneggiatore di fumetti (qui il personaggio dei fumetti si chiama Daryl Zed), precipita in una depressione da cui sembra non esserci uscita.
I doppi di Sclavi si muovono sullo sfondo di una Milano nitida e originale, forse una delle poche testimonianze (a caldo) di un decennio dimenticato come gli anni ’90. Andiamo con ordine: anzitutto i due personaggi principali. Cohan ci racconta la quotidianità di una coppia facoltosa e appartata. Cohan e Lucia (alter ego narrativo di Cristina, la moglie giovane di Sclavi) vivono in un ampio appartamento di Milano, circondati da animali, videogiochi, gadget, dvd, libri e letture. Tra piccole tenerezze, inquietudini del passato (entrambi sono in analisi, lei per anoressia, lui per mille altre cose, tra cui l’irrisolto e classico rapporto coi genitori) e piccole avventure, entrambi si barcamenano nell’oggi. Dall’altra parte, Tom, proiezione inquieta di Sclavi, è un alcolizzato, depresso, spaventato da tutto e da tutti. Tra tentativi di suicidio, sbronze infelici e altrettanto infelici storie sentimentali, Tom ci racconta i dietro le quinte dei momenti bui dello Scalvi all’apice del successo con Dylan Dog. Come Sclavi Tom abbandona il lavoro nella redazione della Bonelli (qui Ravasciò), congedandosi dalle sceneggiature della sua creatura (qui Daryl Zed).
Una volta scrivere era la mia vita, ci passavo le giornate intere , le notti, i sabati, le domeniche… Per me era una festa, era la mia vita… Dico quando ho cominciato, quando scrivevo per me, diciamo così… Poi è diventato un lavoro ed ero felice, capisci, il tuo divertimento, la tua passione, i fumetti, che diventa il tuo lavoro, lo sceneggiatore….
Sia i ricordi di Cohan che di Tom ci restituiscono uno squarcio degli ultimi manicomi (cliniche di lusso e per ricchi), corridoi abitati da fantasmi umani, larve appassite prigioniere di pensieri fissi, corpi svuotati pronti per gli ultimi elettroshock. Gli elettroshock di Scalvi/ Cohan/Tom avvengono a Pisa, presso un importante e famoso psichiatra. Elettroshock per ricchi, per fermare lo scorrere incessante dei pensieri cattivi, dei pensieri che fanno male, per rimuovere un po’ il fardello dei ricordi. Queste pagine sono tra le migliori del romanzo, compreso le considerazioni della voce narrante, capace di ricostruire la geografia di una paura italiana, fatta di vite impasticcate, ognuno con la sua droga, ognuno di noi preso nella danza macabra di qualche dipendenza (fumo, sesso, gioco d’azzardo, droghe, affetti).
In effetti il percorso clinico di Sclavi verso la guarigione è una fotografia impressionista di un manicomio poi svaporato, trasmigrato nella manicomialità moderna, fatta di villaggi turistici (case di cura private, strutture per trattamenti psichici territoriali) della cronicità. Oggi la psicofarmacologia è divenuta davvero di massa, alla portata di un esercito di persone e di un esercito di problemi. I farmaci moderni, gli antipsicotici pronti a calmare l’insorgere di qualunque sintomo, di qualunque libido, di qualunque demone… I personaggi di Scalvi escono dalla clinica affetti da un delirio compulsivo, una bulimia consumistica di merci e feticci. Il personaggio dimesso e sconfitto del primo Sclavi qui è riuscito a fare i soldi (onestamente, ma non importa, grazie alla sua fantasia), a comprarsi una bella casa, tanti begli oggetti, ha persino trovato l’amore, quello vero… Eppure, anche nello scintillio di una prosa veloce e frizzante (come sempre controllata e precisa, volutamente svagata, affidata a dialoghi talvolta brevissimi, talvolta dei veri e propri monologhi sepolti sotto una punteggiatura spiazzante e originale), ci racconta un decennio diverso da quello dei primi romanzi. Rispetto alla Milano della Circolazione del sangue o di Nero., qui siamo già altrove. Sono stati gli anni del processo per mafia ad Andreotti, la fine di qualunque ideologia politica; gli italiani di questo decennio hanno un volto sorridente, ma nel profondo sono animati da una disillusione profonda nei riguardi della politica e delle liturgie di partito. Ne escono bisogni giustizialisti, bisogni camaleontici di lasciare le vecchie casacche e aderire a nuovi valori, a nuovi slanci.
La televisione, negli anni ’90, raggiunge il massimo sforzo di formazione di stili e abitudini. Sono gli anni della Lega di Bossi, di Berlusconi, dell’Ulivo di Prodi che vince le lezioni proprio nel 1996. La Milano di questi anni appare già pienamente globalizzata, fasciata da un relativo ottimismo consumistico, a cui si allinea anche la classe dirigente dell’Ulivo. Tutto sembra proiettarsi sempre più in grande, trasformando aziende, lavori e persone. A questo proposito sono molto interessanti le pagine in cui Sclavi, trasfigurando i nomi, mette in scena dei bozzetti sulla vita editoriale della Bonelli, piccola e poi grande azienda di famiglia milanese nel campo dei fumetti. Tra camionisti che diventano fumettari e commercialisti che sognano il gran salto nel mondo dei potentati economici, Sclavi racconta di come la Bonelli si sia trasformata, ingigantendosi sempre più sotto il peso di Dylan Dog; lo stesso Bonelli/Ravasciò appare sfuocato, sorta di padrone d’azienda all’antica, colto e alla mano, donnaiolo e gentiluomo, figlio di una tradizione artigianale costretta a cambiare, a mettersi al passo, ad assumere segretarie, correttori di bozze, editor, nuove collane, nuovi personaggi, nuovi disegnatori, sceneggiatori, in una girandola economica che sembra subire e che finisce per travolgere il quieto tran tran degli esordi, quando in redazione erano a malapena in tre. La nostalgia per un tempo più lento e a misura d’uomo si avverte sotto la patina da commedia leggera con cui Sclavi rivoluziona la sua scrittura, lasciando ai margini gli incubi e i mostri di cartapesta.
Non è successo niente sembra volerci ricordare che non è più tempo per i mostri, per i cimiteri gotici dei vecchi film della Universal. Ora gli assassini hanno la ventiquattrore, hanno cravatte costose, ora le vittime non hanno la gola squarciata, al massimo dei taglietti sui polsi, a simulare dei patetici tentativi di suicidio casalingo. Ora la paura è nascosta sotto superfici scintillanti, sotto l’apparente ottimismo di un paese moderno, pronto a fare il gran salto dentro la rivoluzione digitale. Anche la piccola casa editrice di fumetti milanese non può sottrarsi al cambiamento, alla girandola di trasformazioni, pena rimanere indietro, finire per scomparire. Ecco allora Ravasciò diventare un manager del fumetto che oscilla tra Milano e Parigi, ecco Cesare/Canzio rimanere in casa editrice a sbraitare su cumuli di lavori, correzioni a cui non si riesce più a star dietro. L’artigianato diventa industria, non si può scendere dal treno in corsa, a meno di fare i soldi come Cohan e rifugiarsi nella parte del grande scrittore famoso, oppure isolarsi in un autolesionismo infantile come quello di Tom, incapace di reggere il peso di produzione della nuova industria del fumetto. La Milano di “Non è successo niente” è una Milano in cui, come spiega un attento lettore come Bertusi, “non ci sono più entità astratte come il “Nemico”, ma figure drammaticamente reali come l’amministratore del condominio, non ci sono zombi che ti aggrediscono alle spalle, ma amici che tradiscono la tua fiducia, non ci sono più mostri senza testa, c’è l’alcol, e il labirinto non è più creato dagli universi paralleli, ma dalle nostre paure interiori. Non è successo niente è un libro che fotografa la vita senza più nascondersi, è un libro in cui compaiono persone, e non personaggi, persone che parlano davvero, senza per forza dover arrivare a qualche conclusione, ma anzi, lasciandosi interrompere, cambiando discorso, perdendosi, come succede nella realtà”.
Ultima cosa da dire, all’interno delle scatole cinesi che compongono il romanzo, Sclavi mette persino in scena se stesso mentre scrive (o cerca di farlo) un seguito del fortunato romanzo Dellamorte Dellamore. Alcune pagine di questo seguito impossibile (il font usato riproduce quello di una vecchia macchina da scrivere, con tanto di sbavature d’inchiostro e lettere traballanti) punteggiano le 400 pagine del romanzo, raccontandoci di un Dellamorte sempre confinato nel cimitero di Buffalora col fido Gnaghi, sempre occupato a sparare in testa ai morti viventi che continuano a non volersene restare sotto terra. I rimandi alla realtà che fa da sfondo sono quelli degli anni ’90, con tanto di Dellamorte che osserva sconsolato le vicende del bel paese da un monitor televisivo; qui appare, tra tanti vivi-morenti, lo spettro di un famoso imprenditore che si è da poco dato alla politica (Berlusconi), tutto sorrisi di plastica e doppiopetto. Naturalmente Dellamorte gli spara in testa, concludendo che la vera realtà è ormai quella televisiva, così come il vero orrore della vita non è più nei poveri zombi, indistinguibili ormai dai vivi. Bene, detto questo, concluderò ora con un’ellisse letteraria. Salto all’ultima apparizione di Sclavi nelle librerie.
I racconti di Domani
Una piccola serie Bonelli, grossi volumi cartonati, una raccolta di storie autoconclusive che hanno un labile collegamento con la testata di Dylan Dog, mi riferisco ai primi 4 volumi de I racconti di Domani. Pur trattandosi di una graphic novel, in questi albi giganti è possibile ritrovare tutta la vena surreale dell’autore pavese. Una sorta di distillato, una voce che viene da lontano, leggermente corretta dall’età e da (forse) una pace personale e privata finalmente raggiunta. La formula è quella di tanti pocket a fumetti degli anni ’70, storielle brevi introdotte da un bizzarro librario che lavora in una libreria (Safarà) in bilico tra gli universi paralleli che popolano tante storie della serie regolare Bonelli. Alcuni racconti sono davvero deliziosi, quasi un apice scritturale di Sclavi, maggiormente impreziositi dai disegni (per me sempre) sbalorditivi di Gigi Cavenago (gli altri sono Nicola Mari e Sergio Gerasi). Nel primo volume segnalo “Il mondo di fuori”, sul fenomeno degli Hikikomori, dove lo scrittore ha modo di rileggere la paura per il mondo esterno, la vita e gli altri, raffigurando(si?) un ragazzo di oggi, prigioniero dei suoi incubi e di una madre obesa da cui non riesce a staccarsi. Nel secondo volume, il racconto “Lo straniero” ci riporta addirittura nell’Oltrepò pavese, ai primi anni ’60, in una rilettura malinconica ed efficacissima del tema ufologico. Nel quarto volume troviamo “Il treno” altro brevissimo racconto per immagini che forse è tra le cose più belle e originali di Sclavi, un fantastico quotidiano a cavallo tra Buzzati e un episodio di “Ai confini della realtà”.
E con questo credo di aver finito.
- E qui riporto le note conclusive del bell'articolo dedicato a Nero.: Nero. lascia sentimenti strani, ambivalenti: piace e non piace, è chiaro pur essendo talvolta incomprensibile, a mio avviso merita di essere letto e conservato, con la consapevolezza di considerarlo un divertissement letterario, i cui pregi compensano ampiamente i difetti. La trama ha tutto per essere considerata horror: sangue che schizza, morti in valigia, psicopatici come se pisciasse… l’humour nero e una bella dose di surrealismo la rendono più giocosa e scanzonata. Il gioco è una delle altre chiavi di lettura del libro, gli incastri e i rebus a cui è chiamato il lettore sono molteplici, tanto che spesso tutto si fa nebuloso, richiedendo più di un passaggio sulle stesse parole. Diciamo che l’astrusità di certi passaggi è forse il problema più grande di questo libro: la capacità di perdonare questa pecca di fondo potrà farvi entrare tra i fautori o tra i detrattori di questo libro, magari cambiando di volta in volta il giudizio, perché mai nulla è come sembra, nemmeno voi...
- In realtà su Tiziano Sclavi qualcuno ha parlato. Ignoro i contributi sul fumetto o le interviste sui quotidiani (solitamente Sclavi non dice nulla di interessante su se stesso). A parte Daniele Bertusi, troviamo alcune pagine illuminanti di Michele Mari contenute ne I demoni e la pasta sfogli. Bello il contributo di Giovanni Canadè sulla Circolazione reperibile in rete. Sempre dalla rete, molto bella la ricostruzione della storia editoriale dei testi sclaviani, reperibile sul blog di “Buffalora”. Molto bello il volume curato da Busatta & Maggioni per la Sergio Bonelli Editore, Tiziano Sclavi Il narratore dell’incubo, volume riccamente illustrato, composto dalle voci delle persone che con Sclavi hanno lavorato nel corso di lunghi decenni. Per la prima volta ne esce un’immagine inedita: Grazia Nidasio (sua scopritrice) ci consegna il ricordo sfuocato di un giovanissimo Sclavi che, nel suo paesello natale, si balocca con una super 8, sognando il cinema. Seguono le voci importanti di Milo Milani, Alfredo Castelli, Mauro Marcheselli, Giancarlo Soldi. Sclavi, perfetto redattore del “Corriere dei piccoli” negli anni ’70, poi l’incontro con Bonelli, il lavoro redazionale come tuttofare, redattore, grafico, revisioni, sceneggiature per Zagor e Mister No. Il ritratto è quello di un ragazzone intelligente, silenzioso, capace, brillante e che a tratti si incupiva, perso dentro i suoi fantasmi interiori. Il sodalizio professionale e umano con Decio Canzio, entrambi accumunati da una negatività di fondo, fino alla costruzione di un personaggio chiuso nelle sue manie e nelle sue idiosincrasie. Forse l’immagine fulminea più bella è quella di Michele Masiero: “Arrivava invariabilmente con una battuta, sempre col medesimo piglio spiritoso, ma poi non è che ci si poteva conversare più di tanto. Mi viene in mente L’inquilino del terzo piano.
- er quel che può interessare, ricordo che lo comprai, in prima edizione rilegata, alla libreria della “Stampa” a Torino; a servirmi fu Giuseppe Culicchia, che allora lavorava ancora lì come libraio. Ricordo pile di quel romanzo, manco Sclavi fosse uno Stephen King del belpaese.
- L’aldilà immaginato da Sclavi non ha nulla a che fare col mondo sotterraneo da colonia penale rintracciato da Piero Camporesi nel bellissimo “La casa dell’eternità”; là corpi pressati e insaccati, avvinghiati in un inferno-mattatoio, un inferno ospedale, cloaca satanica di marciumi e meandri. L’aldilà della “Circolazione” è identico a quello immaginato da Dino Buzzati per il suo “Poema a fumetti”; la Milano di Sclavi è una prosecuzione di quella in cui ha vissuto e scritto Buzzati; così, mentre i fantasmi di Piazza Fontana, di Brescia e Calabresi, diventano un sortilegio nazionale, una ferita con cui non si riesce a fare i conti, Sclavi racconta quel che avviene subito dopo, quando alle ideologie politiche dei ’70 subentra un ripiegamento su valori e stili di vita caratterizzati da una generale sfiducia verso qualunque azione collettiva. Sclavi racconta, senza ipocrisie, la Milano del rampantismo neoliberista, in mano a un nuovo ceto politico di industriali brianzoli; certo nelle pagine dell’autore pavese le luci delle televisioni commerciali si percepiscono appena, sommerse da una Milano fumosa e impersonale, labirinto interiore di automatismi psichici, skyline grigi sotto cieli plumbei, palazzi affilati come coltelli, bar sordidi, vetrine sporche, mongoloidi, teppisti.
- Sul blog di Buffalora, nell’articolo Tiziano Sclavi nei suoi romanzi: storia editoriale, storia privata e collezionismo, si dice: “Sembra un cliché, ma per Sclavi è vero: per stile e contenuti, i suoi romanzi sono in anticipo di un decennio buono su mode letterarie come il postmoderno, i cannibali, il pulp. Forse per questo non incontrò la sensibilità degli editori al tempo. Una sliding door in questo senso fu l’invio di Tre ad Einaudi, che al tempo contava su lettori del calibro di Natalia Ginzburg e Italo Calvino. La Ginzburg apprezzò a tal punto da chiamare Sclavi a casa (che quasi svenne, come si può immaginare). Calvino tuttavia non fu altrettanto positivo, e non se ne fece nulla.” Ecco, Calvino e Sclavi. A prima vista la prosa asciutta e visiva di Sclavi non appare poi così lontana da quella altrettanto concentrata e leggera dello scrittore sanremese. Tuttavia Calvino, in una relazione tenuta a Siviglia nel settembre del 1984 (“Il fantastico nella letteratura italiana”, ora in “Saggi”, Meridiani Mondadori, p. 1672 – 1682, vol II, 2015), parla di un fantastico che richiede mente lucida, controllo della ragione sull’ispirazione istintiva o inconscia, insomma una letteratura fantastica come una vera disciplina stilistica, limpida, disincantata, amara, ironica. La prosa di Sclavi può essere ironica, amara e disincantata, ma di sicuro un romanzo così indisciplinato, sovrabbondante, affondato nelle cripte di un inconscio come “La circolazione del sangue” (o come “Tre”) non poteva piacere a Calvino.
- Dellamorte rimarrà nel cassetto fino al 1991. Tuttavia il romanzo avrà molte vite. Leggendo il mastodontico studio di Giovanni Bono “I Bonelli, una famiglia mille avventure” (Sergio Bonelli Editore 2017), è possibile ricostruire parzialmente il destino del romanzo. Dellamorte giace nel cassetto quando, tra l’84 e l’85, Sclavi (in via Ferruccio a Milano, assieme a Luigi Bernardi) dirige le riviste Orient Exspress e Pilot. Con Bernardi pensa di trarre una serie di fumetti dal personaggio del becchino Dellamorte, affidando delle tavole di prova a Claudio Villa. Villa però entrerà di lì a poco nello staff di Tex, lasciando il progetto. Per “Dellamorte” è ora di tornare nel cassetto. Sclavi, pur conservando alcuni elementi di questo personaggio, si sposta su altro e comincia a lavorare alla nascita di “Dylan Dog”. Tuttavia, nel luglio dell’89, col terzo speciale estivo della collana dell’indagatore dell’incubo, ecco che Sclavi (con Luigi Mignacco) riprende alcune parti del romanzo, mescolandole a una storia canonica del personaggio bonelliano. Ormai i tempi sono maturi e nel 1991 il romanzo vedrà finalmente la luce nell’edizione integrale della Camunia. I morti viventi del romanzo, pur somigliando a quelli del primo Romero, acquisiscono man mano una malinconica asciutezza, sorta di spettri condannati a rivivere in eterno in un purgatorio meta-letterario. Certo il tema dei morti ritorna spesso in Sclavi, basti pensare al primo numero del fumetto dell’indagatore dell’incubo, o ai revenant de “La zona del crepuscolo” imprigionati in un eterno presente di non vita e non morte. Tuttavia gli zombi di Sclavi non sembrano avere grandi somiglianze con quelli contemporanei degli zombi movie italiani del periodo (con l’eccezione del film di Avati); curioso invece che la copertina di Claudio Villa per il numero uno dell’ottobre del 1986, mostri alcuni morti dall’aspetto mummificato, con indosso dei camicioni putrefatti, non dissimili dai ritornanti caracollanti di “Le notti del terrore” di Andrea Bianchi (1981); curioso questo rimando iconografico ed estetico, visto che il film di Bianchi, tra i nostri film sui morti viventi, è l’unico che può avvicinarsi al romanzo di Sclavi (più che al film citazionista che ne ha ricavato Soavi); nel lavoro di Bianchi si percepisce un mondo campagnolo isolato dal resto del mondo, un altro limbo purgatoriale di anime inquiete, dopo le barriere tra la vita e la morte sono friabili. La piattezza psicologica dei personaggi non è poi lontana dalla rassegnata disfatta di quelli sclaviani. Percorsi nelle geografie fantastiche dei generi in quegli anni ’80…
- Sul rapporto tra Roland Topor (illustratore, scrittore, attore) e Sclavi ci sarebbe molto da dire, ma non voglio allungare troppo. Mi limito a segnalare la raccolta “Sogni di sangue” (pubblicata nel 1992) e il racconto “Il testimone arcano”, scritto probabilmente nella seconda metà degli anni ’70, forse dopo aver visto il film di Polanski L’inquilino del terzo piano, tratto dal romanzo e tradotto per la prima volta in italiano in quel 1976. Dico questo perché il racconto di Sclavi rimanda in modo evidente a quello dell’autore francese, immaginando la vicenda di un uomo timido e marginale (uno studente greco fuggito dal proprio paese per motivi politici), che finisce coinvolto in un incidente automobilistico. Incidente di cui è soltanto (forse nemmeno) testimone. Da questo semplice accadimento, la vita di Stavros (il nome dello studente) precipita verso la follia, in una mescolanza di veglia e delirio che ritroveremo in modi analoghi anche nel finale di Nero. Per non parlare del bel volume edito dalla Comic Art nel ’91 che raccoglie tre storie brevi del personaggio di Dylan Dog (i disegni sono di Corrado Roi), che riprendono le situazioni del romanzo (o del film) di Topor. Sempre col personaggio di Dylan Dog, nel 1994, in un albo gigante, sarà presentata una breve storiella intitolata appunto L’inquilino del terzo piano.