Attualità

Comunismo acido dal Lambro a Castelporziano (’76 – ’79)

Domenica, 13 Ottobre 2024

Prima di morire, il filosofo inglese Mark Fisher stava lavorando a un libro interessante di cui rimane una densa introduzione incompiuta e un titolo curioso: Comunismo Acido. L’introduzione, in traduzione italiana, è reperibile all’interno della raccolta Il nostro desiderio è senza nome, edita in italiano da minimum fax. Di cosa tratta questo comunismo acido? Andando subito al punto, Fisher rilegge gli anni ’60 e ’70 da una prospettiva originale e fortemente politicizzata: l’idea che in quei decenni si sia stati sul punto concreto di realizzare una sconfitta del neoliberismo a favore di un mondo veramente libero e democratico.

L'interesse per quei decenni non è soltanto giustificato dalla sicurezza che ci ispira rifugiarci in un passato rassicurante da cui non abbiamo più nulla da temere (passato pieno di immagini iconiche di una controcultura ormai neutralizzata e normalizzata dal tempo e dai ricordi): per Fisher il nervo pulsante deve essere cercato altrove. Negli anni ’60 e ’70 il neoliberismo comincia la sua inarrestabile e irresistibile marcia, tuttavia quei decenni sono stati un periodo di lotte e molteplici forme collettive di vite e utopie, “il controesorcismo dello spettro di un mondo che potrebbe essere libero. Ho battezzato tale spettro con il nome di “comunismo acido”. Il concetto di comunismo acido è una provocazione e insieme una promessa”. Negli anni ’70 in particolare si scorge una “convergenza tra coscienza di classe, socialista-femminista e psichedelica, la fusione di nuovi movimenti sociali in un progetto comunista, un’estetizzazione inedita della vita quotidiana”. Lo spirito di quell’epoca trabocca di musica realmente nuova, cinema, fumetti, romanzi, la “sensazione che il mondo andasse migliorando”. A una certa altezza degli anni ’70 si assiste anche a una messa in discussione del lavoro, della sua ripetitività, della sua negatività, arrivando persino a rifiutarlo in blocco. Miglioramenti nelle condizioni contrattuali dei lavoratori, maggiori diritti sociali, welfare state funzionanti e con sempre più giovani di famiglie borghesi pronti a rinnegare un destino fatto solo di affari e finanza. Nei primi anni ’70 il sistema di potere appare in difficoltà: gli Usa sono screditati dal Golpe in Cile e dal sostegno alle peggiori dittature dell’America del sud (oltre che dal fallimento in Vietnam), mentre una cultura di massa diventa sempre più pervasiva e capace di disegnare estetiche di lotta alternative al capitale.

Sfogliando il denso Generazione Settanta dello storico Miguel Gotor è possibile rintracciare (dentro le nostre latitudini nazionali) alcune di queste traiettorie. Un contesto culturale vivacissimo fatto di riviste impegnate in una riflessione teorica raffinatissima (i Quaderni rossi di Panzieri, i Quaderni piacentini di Bellocchio, Cerchi, Fofi), l’importazione del pensiero di filosofi e sociologi come Adorno, Horkheimer, Marcuse, i nuovi francesi come Foucault e Deleuze, i riferimenti internazionali dei giovani che guardano alla Cina o l’amatissima Cuba di Fidel e del leggendario Che. Il ’68 aveva liquidato la famiglia come unica dimensione sociale dell’individuo, aprendo la strada ad altri mondi possibili. Ad Ovada, sulle colline del Monferrato, gruppi di giovani figli dei fiori diedero vita ad una comune occupando una cascina abbandonata: nudi, tra pozzi, fiumi e natura selvatica, cucinavano mele cotte, accendevano fuochi notturni, addormentandosi cullati dalle nenie dei bonghi. “Il desiderio principale di questi giovani era di evadere dallo stile di comportamento borghese mediante il viaggio, che coincideva con un’autentica scoperta di se stessi: un trip della mente, che prevedeva l’assunzione di droghe naturali e sintetiche come l’Lsd, oppure con il sacco a pelo e lo zaino in spalla nell’Europa settentrionale e verso l’Oriente, o con le immancabili Citroën due cavalli e Volkswagen maggiolino”.

I giovani partecipavano alle comuni, organizzavano picchetti davanti alle fabbriche, si stordivano in interminabili discussioni politiche che erano delle vere e proprie sedute di autocoscienza, delle critiche radicali alle forme di alienazione consumistica a cui le aspirazioni borghesi li avrebbero destinati. Nacquero nuove comunità religiose: l’Isolotto di Firenze col parroco ribelle don Mazzi, il Gruppo Abele di Torino con Luigi Ciotti, Sant’Egidio a Roma. L’autunno caldo vede fiorire numerose sigle di micropartiti radicalizzati nel conflitto politico (Potere operaio con Toni Negri e Franco Piperno, Avanguardia operaia, Lotta continua con Sofri, Rostagno, Pietrostefani, Boato, il Collettivo metropolitano di Milano con Curcio, Simioni, Cagol). Avanguardie operaie, autonomia, rivendicazioni salariali, scioperi “a gatto selvaggio”. Nonostante le prime bombe del terrorismo fascista l’aria è piena di cambiamento: lo Statuto dei lavoratori nel maggio del ’70, l’articolo 18 (oggi abrogato da un governo di centrosinistra come quello di Matteo Renzi!), la legge sul divorzio sostenuta soprattutto dal Partito Radicale di Pannella, il tutto mescolato a tentativi reazionari alquanto oscuri come il tentato golpe fascista di Junio Valerio Borghese. Forze torbide e antidemocratiche si scontrano con le istanze più sperimentali di una società variegata e impegnata, un fiume potenzialmente rivoluzionario di operai, braccianti, studenti, attivisti cattolici. Il 1974 sarà un anno cruciale con l’emergere delle Br (impegnate nel rapimento del procuratore di Genova Mario Sossi), la bomba neofascista di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio e quella del 4 agosto sull’Italicus nella galleria di San Benedetto Val di Sambro, vicino a Bologna.

Mi sono dilungato per rendere in modo approssimativo il coacervo di fatti, ideologie, colori, suoni e speranze di un decennio densissimo. Torniamo a Fisher e al suo comunismo acido. “Negli anni sessanta, quando la coscienza era sempre più assediata dalle fantasticherie e dall’immaginario della pubblicità e dello spettacolo capitalista, quanto era attendibile la realtà da cui gli stati psichedelici fuggivano? Lo stato di coscienza suscettibile allo spettacolo non assomigliava più a una forma di sonnambulismo che alla lucida consapevolezza?” Tra prime pubblicità e immagini dal Vietnam, le televisioni sperimentavano nel privato domestico una prima forma di esperimento di alterazione della coscienza. Tuttavia si tratta di un sonnambulismo ben diverso da quello appiattente della vita lavorativa e quotidiana. L’immaginario dei ’70, pur nei suoi aspetti commerciali, sembra alimentare un desiderio di fuga e rottura con le regole e gli affanni del lavoro (Fisher cita i Beatles, io penso al finale dirompente di Zabriskie Point di Antonioni con le musiche dei Pink Floyd). Fisher accenna anche alle vie di fuga prospettate dalla filosofia di Foucault, autore che sperimenterà sulla propria pelle gli effetti delle droghe psichedeliche1. A un certo punto, verso la fine dell’introduzione, Fisher accenna in modo concreto a un momento in cui le forze controculturali degli anni ’70 sembravano davvero sul punto di vincere e disegnare un percorso diverso per tutti noi. Fisher si concentra su di noi, sull’Italia, sulla Bologna del ’77, vista come un’avanguardia di massa ribollente di energie creative, politiche, sociali2. Un raggruppamento di giovani comunisti acidi mossi da un’energia (per l’ultima volta) dirompente. Fisher cita Bologna, la rivista A/traverso, Franco Berardi e quel mondo fatto di sogni: zero lavoro, zero reddito, zero automazione, sfruttamento, controllo. Scrivere di queste cose oggi potrebbe far sorridere qualcuno. Nel mondo dentro a cui viviamo gli Stati si sono privatizzati, il mercato del lavoro ha completato la sua parabola di precarizzazione permanente, indebolendo ed erodendo le forze sindacali. Oggi, a differenza di quel 1970, 1974, 1977, viviamo dentro uno spazio collettivo fatto di pochi vincitori e molti vinti, all’interno di modelli sociali indifferenti e sfiduciati, di lavoratori docili e maggiormente ricattabili dal sistema economico dell’austerità. La lotta di classe su cui Smith, Marx e Ricardo hanno costruito i loro sistemi di pensiero è stata sostituita da una massa di cittadini atomizzati, lavoratori salariati e sfruttati imprigionati all’interno di una retorica neoliberista che sembra aver cancellato anche il ricordo di un mondo differente e possibile3.

Per Fisher gli anni ’70 sono un modo per ritrovare, anche in mezzo a molte contraddizioni e segni differenti, un ottimismo che oggi sembriamo aver smarrito. L’identificare nel ’77 bolognese il cuore di quel comunismo acido è alquanto interessante. Cos’è stato il ’77? Ne ho scritto di recente parlando soprattutto di fumetti, proviamo a parlarne ancora. Nel maggio ’76 un terremoto devasta il Friuli causando un migliaio di morti. Il 10 luglio una nube tossica di diossina fuoriesce dallo stabilimento Icmesa di Meda, coinvolgendo vari paesini della Brianza. La nube di Seveso lascia dietro di sé devastazioni ambientali e centinaia di persone con la pelle bruciata. A Torino, il 27 maggio, si apre il processo al nucleo storico delle Br. Il 20 giugno ci sono le politiche anticipate che porteranno al primo governo di solidarietà nazionale. La strategia di Berlinguer (la predicata austerità contro i modelli di vita consumistici, la ricerca di un compromesso con la DC). Luca Falciola, in un recente ed efficace volume, storicizza perfettamente quello che è stato il ’77 nelle sue molteplici sfaccettature. Alla base vi era una crisi della società che coinvolgeva sia i giovani laureati, sia un mercato del lavoro sempre più asfittico e precarizzato. La grande fabbrica perdeva definitivamente centralità, portando allo scoperto la crisi del sistema fordista. Crescita della disoccupazione, sottoccupazione e precariato portano i giovani della seconda metà degli anni ’70 a maturare una crescente disillusione nei confronti del lavoro. I giovani non cercano più un lavoro migliore, bensì di lavorare meno o di non lavorare del tutto. A peggiorare il clima una politica partitica che ha ormai abbandonato qualunque politica di programmazione e sceglie di dedicarsi soltanto a un’ordinaria amministrazione della macchina statale. Ciò produce una generale sensazione di immobilità e immutabilità di un quadro politico già fiaccato da scandali (quello Lockheed Corporation), riverberi processuali (Piazza Fontana, il golpe Borgese), l’eco di stragi recenti (Brescia, l’Italicus). I giovani che escono dalle periferie delle grandi città sono giovanissime figure di estrazione sociale medio-bassa: studenti di istituti tecnici, disoccupati, apprendisti, operai di piccole fabbriche.

A infiammare il tutto ci pensano nuovi idoli culturali, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Félix Guattari, impegnati a disvelare il grande continuum carcerario e il disciplinamento sociale operato negli ospedali, nella fabbrica, nelle scuole. Sono anche gli anni dell’antipsichiatria di Franco Basaglia e di David Cooper, il quale propugna l’abolizione della famiglia borghese, luogo di traumi e normalizzazioni repressive dell’individuo. Nel frattempo il partito comunista non riuscì a cogliere i segnali di cambiamento e le nuove richieste dei giovani. Il partito di Berlinguer era ancora troppo legato alla classe operaia, per capire i bisogni radicali che si levavano da schiere di disoccupati arrabbiati e sempre più disillusi dai partiti e dalle loro liturgie. Il ’77 è l’esplosione di tutti questi conflitti, una mescolanza di linguaggi e bisogni, oltre che di una violenza di massa che porterà a giorni di vera e propria guerriglia sociale (11 – 13 marzo a Bologna), oltre che una radicalizzazione repentina dei vari gruppi armati clandestini. Pur condividendo rivendicazioni e bisogni, i terroristi avvertiranno i giovani del ’77 come qualcosa di indistinto e inafferrabile, incapace di volere una direzione o una meta. Facciamo un passo indietro. Al ’76. Il settantasette coi suoi umori è alle porte e la rottura col blocco di sinistra appare sempre più forte. Ad anticipare quel che sarebbe stato di lì a poco c’è il raduno giovanile organizzato al Parco Lambro nel giugno di quell’anno. Festa giovanile, Woodstock all’italiana, il Parco Lambro segna una cesura tra la prima metà degli anni ’70 e la seconda. In quel calderone di concerti, balli, nudismo, droga, proteste, fango e vandalismo è possibile leggere il volto di quel che sarà il carnevale dell’anno successivo.

Il Lambro nasce come festa, poi si trasforma in qualcosa d’altro, da rito carnevalesco a rabbia e balli senza più una direzione. Dentro al Lambro ci sono tutti negli anni ’70 e anche la loro fine. Dal palco - tra i cantanti - Gianfranco Manfredi ha una posizione privilegiata. Ne scriverà sull’Erba voglio del settembre/ottobre del ’76, concentrandosi sulla figura del sottoproletariato giovanile che si era affacciato sotto il palco della manifestazione. “Incazzati di ruolo, si suppone. Forse quelli che la mattina si svegliano male (…) questi incazzati omosessuali, femministe e proletari a caccia di polli”. Tra le sue contraddizioni, il Lambro sembra già disvelare la mercificazione strisciante della controcultura, così come un’oscura stanchezza che presto (dopo gli inaspettati fuochi del ’77) finirà per inglobare tutti. Scrive Manfredi: “la merce-politica anzitutto: si presenta all’ingresso del prato come striscione-stand, libri riviste panini, tutti rigorosamente di sinistra e “rossi” ma perlopiù divisi per gruppo. Fenomenicamente uniti nell’immagine: uno stand vale l’altro. La gente accetta il rapporto, compra il panino. Ma è troppo caro. Il divario tra valore di mercati e prezzo imposto è troppo. Esplode la contraddizione del prezzo politico”. Manfredi riporta ancora a caldo l’impressione di una calca attorno ai microfoni del palco, una smania a parlare amplificati, ad urlare, ognuno i propri slogan. “Il soggetto è colui che ha il potere, e il potere è un palco. Ma i soggetti mutano e cambiano, si alternano a urlare al microfono, il palco resta perché il potere è lui”. Anche Toni Negri accenna al Lambro in un intervento contenuto nel volume Settantasette la rivoluzione che viene: per il filosofo il raduno giovanile del luglio ’76 è come un gigantesco festival organizzato da gruppi frivoli della controcultura. Campi, covoni, gente nuda, una situazione che subito s’accende in un carnevale di espropri al camion dei viveri, colpi di arma da fuoco, supermercati svaligiati nei dintorni, droga pesante e spacciatori pestati dalla folla. Negri coglie il punto del Lambro nell’insieme di queste contrapposizioni: “era insieme la più alta costruzione del desiderio e la segnalazione della negatività assoluta di ogni pretesa (…) Parco Lambro si apre sul corto circuito fra miserie e moltitudine, sulla tensione al ricomporsi del personale nel collettivo-  vive la sua angoscia quando la sostanza progettuale del nuovo soggetto non riesce a trovare godimento intellettuale e produttivo (…) il “dividetevi e moltiplicatevi” di apostolica memoria si realizza il mattino in cui questi poveri tornano ai loro paesi e alla metropoli”. In un bellissimo (e raro) catalogo fotografico di Dino Fracchia – Continuous Days, edito dalla Colli Independent Art Gallery di Roma nell’aprile del 2015 - sono immortalate le due edizioni del Lambro, quella del ’75 e la celeberrima (e ultima) del ’76. Nelle fotografie in b/n del ’75 (il 29/5 per la precisione) si vedono militanti radicali con occhiali scuri e giacca mescolati a militari in licenza, primi indiani metropolitani, freaks smanicati e a petto nudo con barbe e capelli d’ogni foggia, barbari spuntati da qualche copertina di Urania paciosamente miscelati a famiglie di giovani donne e uomini sorridenti in posa coi bambini di un mondo nuovo che pare alle porte. Qualcuno prende un canotto e lo butta in acqua, forse per ricavarsi uno spazio provvisorio, forse per tracciare una via di fuga dalla metropoli.

Milano sembra lontana, relegata sullo sfondo, qualche tetto, palazzi sfumati, per il resto solo vegetazione selvaggia, baracche, tende, rifiuti. Il popolo musicale si stringe attorno a un centro invisibile, a un palco o molti palchi e a quel che avviene sotto e nei dintorni, poesie, letture improvvisate, danze, ancora qualche striscione extraparlamentare a indicare che la via politica per rivoltare il potere non è stata abbandonata. Alcuni ragazzi corrono, forse si inseguono sui prati, altri, in pantaloncini e scarpe da ginnastica fanno jogging zizzagando in mezzo alle tende dell’accampamento. A un tratto deve mettersi a piovere perché spuntano ombrelli, i ragazzi nascosti sotto le tele cerate aspettano che il tempo cambi velocemente. In altri scatti di nuovo un sole forte, i ragazzi e le ragazze seduti, gambe incrociate, una distesa di teste, scarpe, piedi nudi, erba, sigarette, corpi vicini in pacifica attesa, il semplice piacere di condividere un pezzetto di prato. E poi i girotondi, le ragazze con gonne lunghe multicolori, casacche da paese delle meraviglie, cappelli a falde larghe, piume, giubbotti di jeans, ancora a tenersi per mano in una catena che non sembra finire mai. A un tratto tutti si mettono a correre, formano lunghi girotondi caotici. Qualcuno gioca a fare l’indiano, spuntano persino dei tizi coi giubbini stretti degli Hell’s angels. E poi cartelloni underground, scritte di protesta contro l’Amerika con la K. Antimilitarismo, antifascismo, compagni omosessuali, un gran numero di giovani affascinati dalla controcultura americana, da un’idea di marxismo che già sfuma in una costellazione variegata di canne, fricchettoni e musica ribelle. Un papà barbuto che solleva con le braccia la figlia che gli tira i baffi. Il Lambro ’76 è già qualcosa d’altro. La festa è uscita del tutto dal palco e cola sui prati, tra la gente. Magliette sporche, torsi nudi, ancora tende e chitarre, ognuno si fa il suo spettacolo, il suo palco proletario senza rispettare alcun verticismo tra palco e platea. C’è chi brucia legna per un falò sotto il sole, chi si specchia in uno stagno di fango, chi gira con un cappio, forse per processare qualcosa o qualcuno del potere politico pasoliniano, poi spuntano quelli in mutande, presi a miscelare lattine di fanta o a intonare qualche canto. Si balla, si canta, soprattutto ci si lascia andare. Gente nuda, cazzo fuori, tette, peli, chiappe che spuntano da slip che solo nei ’70, uno vestito da guru che si aggira tra le baccanti in estasi, il rito è partito, un rizoma che contagia chiunque. Il palco affollato di gente in slip e megafono, un camioncino della Motta assaltato e depredato da orde di gente a petto nudo, immagini nitidissime e brucianti. Gelati proletari, succhi di frutta, polli, un Valcarenghi perplesso che vede che tutto sfugge di mano, pugni alzati, infradito, croste sulle braccia, ancora pugni alzati, ragazzini giovanissimi in canottiere bianche e lacci sulla fronte per fermare le lunghe ciocche senza più forma. Ognuno ha la sua protesta. Ognuno ha la sua storia. Ognuno la sua idea. La sua rabbia. Il suo sogno. Senza più bisogno di slogan. Cartelloni dipinti. Partiti. Ideologie.

Il Lambro del ’76 (e lo si avverte anche da alcuni bellissimi filmati originali che girano su YouTube e nel documentario di Angelo Rastelli) è un immenso rituale liberatorio di una generazione che non chiede più niente e vuole solo creare una zona libera dentro una città assediata come Milano, un territorio neutro liberato dove tutti possono campeggiare e liberarsi dalle divise, dalle contrapposizioni, dai casini, free zone in cui campeggiare, fuggire, manifestare semplicemente di esistere: musica gratis, cinema gratis, cibo gratis, Lotta Continua, Movimento Studentesco, Avanguardia Operaia, una dissoluzione anarcoide della costellazione del movimento. Si avvertiva ancora nell’aria, in quei corpi nudi e sporchi di terra e sudore, la possibilità di provare a cambiare la propria traiettoria vitale, ad uscire fuori dai binari già tracciati di un capitalismo uscito indebolito dalle rivendicazioni e dalle lotte degli ultimi anni. Pochi anni dopo, in un’altra manifestazione spartiacque come Castelporziano, tutto era già compiuto. Cosa fu Castelporziano? Un festival originale di poesia organizzato nella spiaggia romana di Ostia con una partecipazione di numerosi poeti italiani e internazionali. I poeti avrebbero dovuto salire sul palco, leggere le loro poesie, confrontarsi col pubblico. Non andò esattamente così. Su quegli ultimi giorni di giugno, cerniera definitiva tra gli anni ’70 e tutto il resto fino a noi (oltre che cerniera definitiva tra quello che fu la poesia prima e dopo quell’evento), esiste un bellissimo documentario (visionabile per intero su you tube), oltre che un libro meraviglioso di Franco Cordelli, Proprietà perduta, L’orma editore 2016. Sfogliando le pagine del libro di Cordelli è possibile farsi un’idea precisa di cos’è stato (o non è stato) quel festival: un palco enorme davanti al mare, sacchi a pelo, una distesa di ragazzi nudi, lattine di birra, zaini, fumo. I giovani poeti italiani, soli, sul palco, offerti in pasto a un pubblico rabbioso, incazzato, ironico, dispettoso, per nulla disciplinato.

Un Lambro al quadrato, con gente che lancia bottiglie, schiamazza, fischia, insulta, prende il microfono e zittisce i vari poeti. C’è chi se ne sta in disparte sdegnato (Pagliarani), chi reagisce e viene sbeffeggiato (Bellezza), chi s’incazza e rinuncia a parlare (Maraini), chi sonnecchia pacifico (Zeichen), chi medita torvo (Sebastiano Vassalli). Victor Cavallo fa il presentatore e cerca di mediare una bolgia di gente che straparla e gesticola furiosa, coi beat americani (Corso, Ginsberg e Burroughs) a fare da star. A un certo punto una ragazzina minuta e schizoide sale sul palco e prende in ostaggio il microfono, lanciandosi in un monologo deragliato che contiene già tutto il cinema coatto a venire di Verdone. In quell’informe subbuglio durato di tre giorni i poeti vengono sbranati e la poesia cessa la sua funzione maieutica per scivolare nell’insignificanza o nella marginalità. Sul palco, nella serata conclusiva, salgono i beat, con Ginsberg a intonare un mantra per placare i furori di un pubblico che non ha più voglia di ascoltare, che non vuole starsene passivo e orizzontale. Poi, sotto il peso di quel pubblico che è diventato poeta, il palco cede, in un crollo che si trascina con sé tutto ciò che è rimasto degli anni ’70, la poesia, la letteratura, le brigate rosse, le urla, i sogni, gli incubi, le bombe, gli scontri, i flauti, le bancarelle, gli auto-blindo nel centro di Bologna, l’uccisione di Moro, Guattari e soci. La tensione lascia il posto a una stanchezza infinita. L’ubriacatura terroristica, gli incubi totalitari dei tentati Golpe, le utopie portano dietro di sé un annichilimento che consisterà nell’abbandono dell’impegno politico e sociale e un ritorno alla sfera del privato, o alla nuova febbre del sabato sera. Da quel ’79 crescerà sempre più la disaffezione per la politica, con un calo nella partecipazione alla vita pubblica. Qualcuno troverà breve rifugio nel mistico e nell’irrazionale, tra hashish e incensi, in un fallimento completo della cultura politica di sinistra degli anni ’70. Paolo Morando spiega tutto questo nel densissimo 1978 – 1979 Dancing days, riportando un’affermazione fulminante di Sergio Fabbrini: “è questa l’Italia su cui si regge il nostro populismo e anche il Movimento studentesco degli anni ’70 ne è stato risucchiato. Con il risultato di confermare l’Italia di sempre, quella che ha regolarmente oscillato, nella sua storia, tra qualunquismo e ribellismo. Così, quando i fini sociali del Movimento si sono mostrati impraticabili, alcuni dei suoi maggiori membri sono annegati nella violenza militante. Ma la maggioranza è ritornata al privato” Rinchiudendosi nel campanile. O scoprendo la droga. O l’Oriente”.

Eravamo partiti dal comunismo acido di Mark Fisher, dalla speranza, allora palpabile di un mondo più giusto. È cronaca di questi giorni (scrivo il 6 luglio del 2024) come un gruppuscolo fondato nel ’72 dai sostenitori di Vichy e dell’Algeria francese si è dunque sviluppato nel caos sociale nato dalla deindustrializzazione e dalla disoccupazione di massa delle periferie francesi. Accelerazione tecnologica, dominio illimitato del modello liberista. Tra gli anni ’70 e il nostro presente si è verificata una lacerazione psichica e geopolitica che si è accanita sullo stato sociale e la flessibilità del lavoro. Su queste strade si avventura Marco Revelli nel libro più bello che mi sia capitato di leggere in questi mesi estivi. In Questa sinistra inspiegabile a mia figlia Marco Revelli riannoda i fili della memoria personale e della storia repubblicana, mettendo a fuoco le sconfitte epocali della sinistra italiana fino ai nostri giorni. In un passaggio particolarmente convincente Revelli individua nella settimana di luglio 2001, nelle camere di tortura della caserma Bolzaneto, nella mattanza della scuola Diaz, negli spari di Piazza Alimonda, il momento in cui una nuova generazione (acidissima e) di sinistra veniva ridotta al silenzio a colpi di manganello, mentre dentro la zona rossa blindata i vari Bush, Putin, Blair, Chirac e Berlusconi preparavano lo spolpamento del ventennio a venire. Conclude amaro Fisher: “Nel 1977 simili richieste sembravano non soltanto realistiche ma inevitabili: “guardate compagni: la rivoluzione è probabile”. Oggi ovviamente sappiamo che la rivoluzione non c’è stata”.

  1. L’avventura è ben documentata nel libro di Simeon Wade, Foucault in California, blackie edizioni 2023: Wade, assistente universitario presso la Claremont Graduate School, accompagnò Foucault in un viaggio lisergico nella Death Valley nel 1975. Foucault era stato chiamato per un ciclo di lezioni in California e nel libro appare in gran forma fisica con look smagliante: giacca di mandras marrone, maglia a collo alto bianca, pantaloni bianchi affusolati, mocassini marroni. Wade e il suo compagno trascinano il famoso filosofo francese in mezzo al deserto, in un paesaggio surreale fatto di colate di rocce, un arcobaleno di minerali iridescenti, anse, canyon, lucertole e un’atmosfera magica amplificata dall’Lsd e da una buona bottiglia di Grand Marnier. Il trio gironzola nella Zabriskie Point di Antonioni, lascia riverberare le note di Gesang der Jünglinge di Stockhausen, parla di filosofia e potere, osserva le stelle assumere forme di giganteschi addobbi natalizi ed esplodere in un vento tiepido. Alla fine del viaggio, in un caffè ristorante all’entrata della superstrada di San Bernardino, un Foucault rigenerato osserva i clienti del locale e abbozza una sua versione del comunimo acido di Fisher. Dice che gli avventori gli paiono tutti uguali, vestiti allo stesso modo, mangiare lo stesso cibo, ognuno prigioniero di un medesimo schema collettivo. Allora il compagno di Wade gli domanda se in America ha visto qualche differenza e lui risponde che le ha viste nelle università americane, tra gli studenti, nel coro di proteste che si sta allargando tra i giovani occidentali. Nella stessa latitudine temporale Pasolini esprimeva tutt’altra fiducia nei giovani della controcultura. Nella poesia Manifestar (appunti) ne prendeva con acre ironia le distanze (“Manifestar significar per verba non si poria/ ma per urli sì/ e anche per striscioni; o canzoni;/ Sono venuti a rifare il mondo/ e manifestando, sen e dichiarano all’altezza”).
  2. Mentre scrivo queste righe leggo per caso un bel romanzo di Claudia Durastanti, La straniera, La nave di Teseo 2019. La Durastanti scrive un memoir sulla sua famiglia, sui nonni, la madre e il padre sordi, personaggi di un’Italia ormai lontana fatta di emigranti, adolescenze solitarie, la modernità americana e le sperdute lande di una Basilicata ancora attinta dalle chimere antropologiche e “infiltrazioni folkloriche legate all’occulto e all’esoterico” come ne scrive Luca Peloso in un bel contributo sul romanzo. Durastanti scrive un libro malinconico e profondo su personaggi fotografati in una faglia tra mondi, tra lo sfaldarsi di un universo contestatario, nomade e selvaggio e uno scivolamento progressivo nel nichilismo dell’oggi. L’autrice si muove tra le pieghe del proprio vissuto, trasfigurando i ricordi in particelle narrative in cui romanzo autobiografico, saggistica, critica letteraria e pura invenzione si mescolano senza soluzione di continuità. La narrazione della Durastanti attraversa ciò che rimane degli anni ’70, le estati degli anni ’90, l’avvento del punk, i Mondiali del ’94, letture, ascolti musicali, fumetti, fatti realmente avvenuti o contraffatti, in un originale sgretolarsi del fantastico sotto forma di frammenti sparsi disseminati nel tessuto del testo, a ricordarci che nulla più di un memoir (o di un saggio letterario come nel caso di Fisher) è popolato di fantasmi.
  3. Clara Mattei in L’economia è politica spiega molto bene la questione: “Il primo obiettivo: l’austerità incrementa la dipendenza dei lavoratori dal mercato. Il crollo della spesa sociale e dei salari assicura che, per la grande maggioranza della popolazione, il diktat “lavora duramente, risparmia duramente” sia l’unica forma di vita praticabile e insieme la più nobile. Alzare i tassi di interesse e smantellare la sanità pubblica, per esempio, sono altrettanti modi di indebolire il lavoro dipendente: se hai paura di perdere il posto e con esso la possibilità di pagarti le cure mediche, diventerai più malleabile e più controllabile. Se le opportunità di lavoro scarseggiano, i salari diminuiscono e lo Stato smantella, insieme alla sanità, anche la scuola, l’edilizia sociale, i trasporti e i servizi pubblici; ciò significa che dovremo quotidianamente preoccuparci di avere soldi in tasca per soddisfare bisogni elementari. Se abbiamo a malapena l’energia per arrivare alla fine del mese, come possiamo trovare la forza per partecipare a qualsiasi iniziativa collettiva per tutelare i nostri diritti?”.

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