Procediamo con ordine: anzitutto chi era Adriano Spatola? Dall’oblio della tomba nel boschetto di acacie del cimitero di Montechiarugolo (valle dell’Enza, tra Reggio e Parma), in questi ultimi anni, una serie di mirati interventi, sembrano voler iniziare a riscattarne la figura. I contributi non sono mancati (una mostra alla Biblioteca Poletti di Modena nel 2009, i contributi critici di Beppe Cavatorta, Francesco Muzzioli, Eugenio Gazzola, Emanuele La Rosa, la traduzione integrale dell’opera poetica per l’editore americano Green Integer nel 2008 con la traduzione di uno spatoliano di lungo corso come il poeta Paul Vangelisti), ma quello che è mancato veramente è l’interesse dei lettori odierni a certe tematiche, oggi davvero marginali all’interno del dibattito (e del consumo) letterario.
Emiliano di nascita, Spatola pubblica nel ’61 la prima raccolta di poesie, poi presenzia al convegno di Palermo del Gruppo ‘63, punta di diamante delle avanguardie letterarie italiane di allora. L’anno successivo esce appunto per Feltrinelli il suo primo (e unico) romanzo in prosa. Dopo Spatola si dedicherà esclusivamente alla poesia, arrivando a una concezione originale di “poesia totale”, fino alle esperienze singolarissime degli anni ’70 (con la comune poetica al Mulino di Bazzano, le operazioni artigianali e originalissime delle edizioni Geiger, legatoria e tipografia sperimentale non del tutto pacificata e fatta in casa, sempre al Mulino), la rivista poetica “Tam Tam”, e ancora gli anni ’80 e il tramonto definitivo dell’indipendenza tipografica e di qualunque tensione sperimentale; lo Spatola ultimo, e in sfaldamento, ci viene restituito dai ricordi dei parenti: un gigante dal frigorifero guarnito da bottiglie di vodka e limoni, rimasto solo (anche se, negli anni restanti godrà dell’amorevole compagnia di un’ultima giovane compagna) a fronteggiare l’emblematica fine delle tensioni culturali di due decenni; l’ultimissimo Spatola è quello che cerca nuovi impulsi dalla poesia sonora, dalle performance corporali e gli sberleffi degli happening. Un infarto traditore stroncherà la ricerca di Spatola nel novembre del 1988, in quel di San Polo d’Enza. Bene, fin qui il ritrattino a matita.
Torniamo adesso agli anni ’60, al fermento di una certa narrativa (allora “nuovissima”) d’avanguardia in cui Spatola sguazza di gusto.
Anzitutto L’Oblò del ’64. Il ’64 è quello del famigerato Piano Solo, trame reazionarie, Segni, De Lorenzo – sono anche gli anni, o lo sono appena stati, del miracolo economico, nuovi soggetti sociali emergenti, i quartieri dormitorio dell’Italia centrosettentrionale, l’esperimento Tambroni, gli esecutivi Fanfani, fino al tentativo del centrosinistra organico inseguito da Moro, di sottofondo le canzonette di Gianni Morandi, il conservatore Celentano, l’individualista Battisti, e soprattutto un rinascimento artistico e culturale ad ogni latitudine (il teatro off di Carmelo Bene, i film di Visconti, Fellini, Pasolini, Antonioni, Risi, Petri, il cinema alienato di un gigante come Marco Ferreri, ancora le arti figurative nuove di Burri, Schifano, Fontana, Festa, Angeli, fino appunto allo sperimentalismo letterario del Gruppo ’63, neoavanguardia tra marxismo, strutturalismo e industria culturale. In questi primi anni sessanta l’editore Giangiacomo Feltrinelli, con un occhio all’école du regard francese, uno al Gruppo ’47 tedesco e uno alla nuova letteratura latino americana, matura l’interesse di aprire la casa editrice ai fermenti avanguardistici italiani. Ecco allora l’intenzione di una collana specifica, Le Comete, lanciata con lo slogan di “una collana come rivista di letteratura internazionale”. A dirigerla viene chiamato il braccio destro di Feltrinelli, Valerio Riva (figura fondamentale di quegli anni, già nel giornalino studentesco del Parini La zanzara, entra a far parte del Gruppo ’63, ed è, con Giangiacomo, tra i fondatori della casa editrice, traduttore, giornalista, curatore con Ornella Volta della fondamentale antologia Feltrinelli I vampiri tra noi, 1960, e della bellissima antologia mondadoriana Il piacere della paura, 1973, curata assieme a Marcello Ravoni - insomma Riva era una figura ai piani alti dell’editoria di allora, però non disdegnava affatto l’horror e i linguaggi dei generi), che firmerà anche delle traduzioni firmandosi con lo pseudonimo di Carlo Alberto Gastecchi; la collana coprirà gli anni d’oro delle nuove avanguardie degli anni ’60 (dal 1959 – anno non casuale con l’inizio del nouveau roman francese, ma anche di un autore come Dürrenmatt, introdotto per la prima volta in Italia - al 1967, per un totale di 44 titoli). La grafica dei volumi è molto originale, le copertine sono curate da Albe Steiner. In realtà la ricerca sperimentale della collana parte dal n. 11 del 1962, I sotterranei di Jack Kerouac, per la cui edizione viene realizzato un pieghevole applicato alla copertina che riporta un “tridecalogo della prosa moderna” essenza di tecniche e stili nuovi adottati dall’autore americano. Il bisogno di ricercare un nuovo oggetto libro è da subito evidente nella collana. Nel ’61 compaiono Francesco Leonetti ed Oreste del Buono. Nel ’63 l’anno spartiacque con Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti, n. 25 della collana. Ormai i tempi del Gruppo 63 sono maturi (del ’61 era l’antologia poetica fondativa - sempre Feltrinelli - dei Novissimi; non solo, dal 1962 Giangiacomo era diventato l’editore del Verri, la rivista di Luciano Anceschi che aveva coltivato le poetiche del gruppo): il romanzo di Sanguineti scuote il dormitorio della letteratura italiana, scatena subito una serie di reazioni contrastanti, spesso violente. Le critiche sono accese, aspre. Segue Come si agisce di Balestrini (1963), Lo sproloquio di Giancarlo Marmori, Barcellona di Germano Lombardi, L’Oblò di Spatola nel ’64, fino a Il grande angolo di Giulia Niccolai e Il parafossile di Giorgio Celli. In realtà è difficile tracciare una sintesi degli appartenenti al Gruppo 63; tra i vari scrittori, pur in una certa comunanza di ricerca, vi sono numerose differenze. Comune è l’interesse delle nuove avanguardie per lo strutturalismo e la semiotica, una ricerca linguistica1 che li porta a interrogarsi sul linguaggio e il suo rapporto col capitalismo di quegli anni, sulla relazione tra linguaggio e alienazione, tra produzione e comunicazione, tra merci e messaggi. Gli antiromanzi degli anni ’60 sono prose dal “dissenso”, esperimenti onirici, combinatori e neodadaisti, prodotti quasi meccanici di un pensiero divenuto psicotico e delirante, stritolato dagli stridori della fabbrica e dai jingle dei caroselli serali. Il cuore della neoavanguardia è quello di rilevare la reificazione della comunicazione linguistica, confrontarsi con la mercificazione della lingua italiana degli anni ’60, la lingua, all’apparenza tutta luccicante e nuova, del boom. Da qui il bisogno comune di un lavoro narrativo e poetico che vuole raggiungere effetti di straniamento, improntato a una frammentarietà e destituzione del ruolo poetico dell’io lirico, di una tecnica elencativa, un uso innovativo del montaggio e dello smontaggio dei tasselli che compongono il testo, fino alla mescolanza furiosa e all’atomizzazione raggiunta da certi autori2, oltre che il bisogno di collocarsi, in quegli anni, in un’area politica e sociale di forte dissenso e contestazione rivoluzionaria. Ma torniamo ad Adriano Spatola. Di tutti quegli autori, Spatola rappresenta una sorta di resistenza e continuità dell’avanguardia anche fuori dal suo periodo d’oro. Come dicevo all’inizio, Spatola continuerà a restarsene fuori dal coro anche durante il durissimo riflusso degli anni ’80, quando la narrativa tornerà (per sempre?) a dormire i sonni tranquilli e rassicuranti dell’emotività. Anche fuori stagione, Spatola insegue una scrittura fuori fuoco, sperimentale, portandosi sulle spalle anche il ruolo di piccolo editore anarchico al Molino di Bazzano con la rivista Tam Tam, le edizioni Geiger, fino alla rivista-video Baobab, dal 1979. In realtà Spatola, all’interno del Gruppo 63, elabora una formula “parasurrealista” che lo accomuna ad altri due membri (e amici) come Corrado Costa e Giorgio Celli. La definizione “parasurrealista” deriva da un certo gusto ironico e grottesco che caratterizza tutte le poesie e i testi spatoliani degli anni ’60, un’abilità neobarocca di accostare materiali diversissimi che si muovono dalla fantascienza, all’erotismo, fino all’horror. Si avverte un richiamo, nelle metafore visive e poetiche, alle correnti del surrealismo francese, oltre che ai sempre di moda Sade e Lautréamont. Il fantasma del surrealismo si mescola con le esigenze delle nuove avanguardie e trova in Spatola un entusiasta adepto, pronto a mescolare il suo parasurrealismo latente con la massa linguistica di film, pubblicità e altri prodotti della cultura di allora.
Veniamo ora a quell’unico testo narrativo. L’Oblò (Emanuele La Rosa, in una intervista al fratello di Spatola, Maurizio, ci fa sapere che il titolo originale voluto da Adriano era Il buco nel muro, poi però Balestrini diede il titolo che conosciamo oggi) si differenzia sia dall’oralità bassa di Sanguineti che dalla frantumazione totale di Balestrini e Pagliarani. Tuttavia è lontano dalla linearità di un Arbasino e dal piacere narrativo di un Lombardi. Cavatorta parla di un iper-romanzo precursore dei tempi (all’epoca certi recensori lo stroncarono senza appello, parlando di un’avanguardia che aveva toccato il fondo). Come si presenta a prima vista il testo? Materiali narrativi fluidi manipolati in un modo differente rispetto a un collage. C’è maggiore controllo sull’intersecarsi denso e violento di ogni singola parte, segno comunque di una parziale riscrittura e aggiustamento. Anche qui il gusto surrealista degli accostamenti visivi è molto presente (non è un caso che un testo poetico come “Reattivo per la vedova nera”, di quel ’64, contenga molti elementi visivi accostabili al romanzo: psicoterapie mentali, impiccati vari, scene sexy con calze di nylon, scene violente di bulbi oculari dentro dei bicchieri, dei metrò-catacomba; materiali e suggestioni che torneranno anche nelle poesie della raccolta del ’66 L’ebreo negro, in particolare nei materiali che compongono il poema Il boomerang). L’Oblò è composto da 46 capitoletti brevi per un totale di 144 pagine. Tutti i capitoli, analizza Beppe Cavatorta, sono cellule indipendenti estrapolate da una serie di materiali narrativi eterogenei: giornali, fumetti, film horror, romanzi di fantascienza. Accennavo alla differenza dei collage di Spatola rispetto a quelli di un Balestrini, Giuliani, Pagliarani. Come? Spatola sembra lavorare più su una serie di incipit di possibili numerosi romanzi accostati tra loro e che non portano mai a un vero intreccio, a un climax o una conclusione possibile. In questo il romanzo spatoliano sembra quasi anticipare il Manganelli delle Centurie e il Calvino di Se le notti d’inverno. Certo Spatola rinuncia a qualunque compromesso interpretativo, pur senza abbandonare (e questa è una novità interessante rispetto ai testi più furiosi di quegli anni ’60) a una certa scorrevolezza e piacevolezza di lettura; l’effetto è raggiunto da una chiarezza espositiva, da una scansione ritmica dei pezzi, alcuni molto pop con abbondanti concessioni al genere, in particolare l’horror e il sexy. Certo il surrealismo di Spatola è un surrealismo freddo, una rivisitazione aggiornata al mondo dei mass media, dell’attualità, che mescola scrittura automatica e psicoanalisi (in una dimensione che sarà ed è di Sanguineti, anche lui comunque aderente ad una dimensione di cinema mentale, di pagina-schermo, di sintassi discontinua e zumate rapide). Come già farà nella sua ricerca verso una poesia totale, dal ’69 in avanti, Adriano elabora una lingua infittita di testi pubblicitari, pre-esistente, tuttavia intimamente marxista, che vuole liberarsi dai vincoli e dalle banalità di un linguaggio sempre più standardizzato e da un’immaginazione sottoposta ai controlli della mercificazione. Non alzate le sopracciglia: ci torneremo su nella chiusura. Rimaniamo ancora sul romanzo. A una ricognizione dall’alto, il libro si presenta come una narrazione più volte interrotta e ripresa di un personaggio, Guglielmo, personaggio che sembra nascere più volte (anche qui non mancano riferimenti mitici e surreali, in particolare a Pasife e al Minotauro); seguiamo le peripezie di Guglielmo, personaggio sfuocato sulla pagina che sembra attraversare i relitti di una Storia che rimanda alla lotta partigiana, in un gioco delle parti che il personaggio sembra ricoprire tra entrambi gli schieramenti. A questi capitoli ne seguono altri “horror” su teste di cane rianimate e corpi ricoperti di ragnatele (l’immagine dei ragni e delle ragnatele sembra tornare più volte nel corso delle 144 pagine). Non mancano anche dei pezzi che somigliano a certe stranezze di Burroughs (in quel ’64 esce la prima traduzione per la Sugar del Pasto Nudo, fatta da Claudio Gorlier e Donatella Manganotti), mi riferisco al capitoletto Zampe animate, p. 47, dove Guglielmo traffica con disinfettanti per debellare scarafaggi che si annidano nel cervello; seguono scene sexy legate al mondo dello strip-tease (allora molto in voga, penso ai film sugli spogliarelli e i locali notturni di mezza Europa). Ritornano tematiche più horror nel capitoletto Psycho terror, anche qui incentrate su un rapporto sessuale di Guglielmo con una mai specificata ragazza, rapporto interrotto da una serie di ragni che brulicano sui loro corpi nudi. L’ultima parte del libro diventa più impenetrabile, ermetica, la lettura s’ingolfa e le scene si sovrappongono: Guglielmo perde il confine dei generi e diventa donna (i personaggi sembrano sottoposti a una disgregazione biologica e fantastica sempre più sadica e accelerata), le immagini dell’inizio sulla guerra e lo sgocciolare di una trincea chiudono il libro su un fondo oscuro e inquietante, quasi un preludio di un’epifania nera, una dispersione testuale richiamata anche dalla quarta di copertina, dove non mancano riferimenti a certa musica d’avanguardia (Cage, Schnabel, Kagel), o agli aspetti più nuovi della pop-art3... Come abbiamo visto il romanzo è un impasto ben amalgamato di testi di varia provenienza che Spatola riadatta e uniforma (anche tipograficamente, il libro si presenta sotto le spoglie, i margini, di un normalissimo testo), mantenendo una chiarezza e una scorrevolezza, aiutate dall’aver sulla scena quasi sempre il suo personaggio ricorrente (Guglielmo). Interessante anche (nel primo Spatola) l’interesse per un residuo horror (che si presenta varie volte, tra poesie e testo narrativo sotto le forme di situazioni apocalittiche estreme come la guerra, o ancora un disfacimento animale e vegetale dei corpi – metamorfosi vegetale e zoomorfa, richiami semantici e insistiti alla morte, alla tomba, in una ricerca voluta ed esibita del “macabro” fatto di descrizioni crude, compiaciuto sadismo e humour noir che potrebbe rimandare alla tradizione letteraria francese, come ai pornofumetti neri da stazione di allora), presente assieme ai materiali più incandescenti della narrativa sperimentale. A dire il vero, in quegli anni (e questo è un cono d’ombra pochissimo studiato), a cercare quasi un punto di incontro tra gotico, horror e ricerca d’avanguardia ci sono anche altri. Sicuramente Bava, pur nel suo disinteresse nel prendersi sul serio, presenta una certa carica sperimentale, soprattutto nell’uso delle luci e certi accostamenti surreali nel montaggio, oltre che per un esibito sfilacciamento narrativo nella struttura dei plot. Sempre nel cinema segnalo il bravo Corrado Farina che in “Hanno cambiato faccia” coniuga felicemente critica marxista, architettura radicale e vampirismo capitalista. Che dire poi degli happening drogati di Paul Morrissey nei film gotici girati a Cinecittà con la complicità di Andy Warhol, Carlo Ponti e Antonio Margheriti? E ancora Il delitto del diavolo di Tonino Cervi, l’happening letterario cinematografico del Necropolis di Franco Brocani, il barocco onirico del Don Giovanni di Carmelo Bene e, quasi come un contraltare parodico, la sublime sgangheratezza di Renato Polselli con Riti, magia nera e segrete orge nel ‘300, o ancora schegge che appaiono come l’orgia shake simil messa nera che a un tratto si vede nel deragliante e bellissimo L’urlo di Tinto Brass, per tornare ancora a Bava e a quel lacerto gotico di manichini e lasciti klossowskiani che è Lisa e il diavolo, forse punto di non ritorno di questo breve excursus tra gotico e sperimentazione. E in letteratura? Ci si è spinti su questi terreni deragliati? Forse il Pier Carpi di Un’ombra nell’ombra, il Bernardino Zapponi di Gobal, o le sublimi (e involontarie) follie di tanti romanzetti dimenticati da edicola di allora4, e ancora una volta Edoardo Sanguineti di cui, la sempre acutissima, Niva Lorenzini nota già nei romanzi un’ottica onirica, una simbologia alchemica, o, per dirla con Andrea Cortellessa, una componente tanatoide, collegata al tema della cavità e del vuoto, del “sognare di essere niente”5. Vicino a Spatola era l’amico Giorgio Celli, poi famoso etologo, col suo Il pesce gotico, prima prova delle neonate Edizioni Geiger, stampato nel febbraio del ’68: Il pesce (accompagnato da 10 disegni di Cesare Lazzarini - libro introvabile, è possibile leggerlo agevolmente grazie alla scansione filologica di Maurizio Spatola) è un volumetto di appena 48 pagine, un testo che unisce magia, scienza, biologia, darwinismo, in un tessuto linguistico che sembra farsi “metabolismo letterario”, una masticazione di linguaggi letterari e scientifici, tenuti insieme dai sedimenti geologici dell’inconscio (della specie?), dove dominano parole relitto, fantasmi di mostruosi abitatori del pianeta cretaceo, o sub-atomico, tanto che il (romanzo?) (poesia?) libro sembra un altare onirico di invocazioni per un mondo quadridimensionale tra fantascienza e incubo chimico (ma anche in Celli, il sonno del linguaggio genera Breton e ancora fantasmi di un inconscio sociologico che ha complesse ramificazioni nel quotidiano…). Perché questo curioso accostamento tra antiromanzi e gotico? Tra collage e inconscio? Credo che il gotico contemporaneo sia per sua natura una narrazione scollata, fatta di atmosfere e stati sonnambolici e stranianti, di suo già molto anti-narrativo. Ecco allora che il collage e lo straniamento vengono a trovarsi bene nella creazione di un’immaginazione surrealistica, fatta di sovrapposizioni e montaggi, ibridi dai vari generi di consumo. Già Luigi Weber, nel suo studio dei romanzi sperimentali Con onesto amore di degradazione (Società editrice il Mulino, 2007), interpreta il fantastico come una grande incubatrice e laboratorio per il romanzo d’’avanguardia novecentesco…
Bene. A questo punto lascerei la mia copia ingiallita dell’Oblò e proverei a fare un altro tipo di discorso, per concludere…
In un articolo del marzo 1969 della rivista Quindici, Adriano Spatola si chiedeva con una certa enfasi se “Esiste ancora la poesia? Esiste ancora il poeta? Esiste ancora il critico di poesia? Esiste ancora il lettore di poesia?” Sostituiamo alla parola “poesia” quella di “romanzo sperimentale” e chiediamoci oggi, in un 2020 da post-covid, la medesima cosa.
Che senso ha parlare di queste cose, in un paese che non legge niente, dove i romanzi vengono confezionati a tavolino dagli editor di turno, dove per pubblicare devi avere delle conoscenze (ma questo beh, ormai è normale, visto che devi avere delle conoscenze anche per vincere un concorso per fare il guardiano del cimitero), oppure devi pagare qualche finto editore che s’ingrassa un pochino sulle tue vanità?
La risposta che mi do è nessuno, nessun senso.
In un bel saggio, Gruppo 63 Il romanzo sperimentale, col senno di poi (L’Orma, 2013) a cura di Andrea Cortellessa, si riproduce fedelmente il libro introvabile del ’66, resoconto del convegno della nuova avanguardia a Palermo, a cui si aggiungono una serie di interventi successivi che coinvolgono critici, lettori e autori di oggi. Tra gli interventi più interessanti segnalo quello di Tommaso Ottonieri che, nel rileggere gli interventi del libro originale, considera il dibattito del ’65 come un “asteroide irreplicabile, confittosi nell’inerzia del nostro campo letterario, in provenienza dalle galassie di un futuro interrotto”. Egualmente definitivo è Vitaliano Trevisan che nel commentare una presunta eredità del Gruppo 63 (eredità che forzatamente in molti hanno cercato nei “cannibali” einaudiani, o in gente come Santacroce, Brizzi, Scarpa, Ammaniti, Nove – anche se è certa una continuità nella cosiddetta “terza ondata” costituita da scrittori e scritture covate dalla fine degli anni ’70 all’emersione nell’89 – gente come Baiano, Caliceti, Frasca, Frixione, Ottonieri, tenuti a battesimo dagli irriducibili Filippo Bettini e Roberto Di Marco (sopravvissuti e mai pentiti del Gruppo ’63), guardati da amorevole vicinanza dal vate Sanguineti – scritture queste della “terza ondata” (quasi un revival terroristico) che riprendono la radicalità del trattamento linguistico, il pastiche, l’utilizzo di una lingua “culta” del passato, d’antan, fino al grammelot puro, ma senza quella giocosità, e anche divertimento, che apparteneva – involontariamente? – agli originali degli anni ‘60) chiude il suo intervento con delle parole che andrebbero mandate a memoria: “l’eredità del Gruppo 63. Nessuna. Un’eredità presuppone un futuro, e un futuro non c’è stato, ovvero il nostro oggi, non essendo il futuro di quel passato, ma solo un presente venuto dopo, può certo tener (di) conto di tutto ciò che è venuto prima, ma non ha possibilità di ereditare più nulla.” Lo studioso Luigi Weber, frequentatore di lungo corso delle neoavanguardie, individua invece una parziale eredità nel lavoro sulle forme dell’oralità, sul recupero di una forma di racconto che erode i margini della fiction, sostituendovi la casualità e il disordine dell’esperienza vissuta, cosa che a pensarci è molto vera, visto che infatti “lo scriver male” di Sanguineti è divenuto l’unico modo possibile di scrivere dei tanti scrittori più o meno alla moda di oggi, tutta gente che ha ereditato queste forme di narrativa elitaria e che, col romanzo post-eighties di Tondelli e Palandri, le ha rese innocue e rassicuranti. Lo stesso Cortellessa, nel chiudere il volume critico e riassumere le posizioni degli intervenuti, si chiede come mai il romanzo sperimentale è collassato, proprio in un momento in cui, nell’esplosione più incontrastata di un nuovo neoliberismo, ve ne sarebbe bisogno. Oggi più che mai il mondo letterario si è coagulato in una melassa indistinguibile di marketing, branding e focus groups, dove a scrivere i libri sono i fenomeni da baraccone emersi sui social, gente che vende centomila copie e si vanta pure di non leggere un cazzo6. Il linguaggio letterario medio di oggi, nella migliore delle ipotesi, scimmiotta una lingua neutra, idiota, che avrebbe potuto figurare in qualche testo avanguardista di allora. Certo le tecniche di quei romanzi sono state parodiate dal marketing e dai nuovi media, tuttavia quei romanzi restano difficili da digerire per davvero, protetti da una patina di difficoltà, di noia (soprattutto) e resistenza a un senso comune che ne tiene lontano un lettore di passaggio, svogliato, a malapena capace di leggere. Oggi manca una voglia critica di osservazione consapevole, un pensiero divergente e non un’ammirazione nascosta per le logiche di mercato e i like (di una vita immaginaria su) di Facebook. In questa sharing literature colonizzata dalle logiche economiche e dai big data, servirebbe ripartire dai fantasmi delle neoavanguardie degli anni ’60, e perché no, anche da quei romanzetti horror da due lire che uscivano nelle edicole, anche solo per interrompere il flusso dominante della narratologia di Netflix e della serialità televisiva, moloch moderno oltre a cui sembra ormai impossibile sottrarsi (pena l’invisibilità assoluta, “un nero cupo di chi è stato bruciato così dal sole, e gli abissi gli hanno velato il viso”)…
- Interessante notare come i linguaggi delle neoavanguardie sembrano accostarsi alla fortezza linguistica di Niklas Luhmann, sociologo che vedeva alla basa della nostra società contemporanea non uomini, bensì sistemi psichici, sistemi comunicativi che non fanno riferimento a una qualche realtà esterna, ma semplicemente ad altre comunicazioni, che a loro volta fanno riferimento ad altre comunicazioni. In Luhmann, come nella narrativa di massa sperimentale, ciò che tiene insieme le menti e la società è insomma la galassia sistemica del linguaggio. Lo stesso Spatola, nel suo saggio “Verso la poesia totale” scriveva che “il poeta oggi si trova di fronte a una realtà già “scritta”, a un mondo coperto di segni, e la poesia consiste ormai quasi soltanto nell’utilizzazione a fini estetici di questo repertorio illimitato”. Di contro, potrei riportare la recente lettura dell’avvincente saggio di Gioele Cima, ricercatore indipendente, sul tardo e ultimo Lacan: l’analogia tra Lacan e certi discorsi burroughsiani sull’azione mutilante e debilitante del linguaggio sul soggetto; ancora l’idea dell’inconscio come di una cripta, di una malattia mentale da cui non c’è risveglio, e la psicanalisi come di una non scienza delirante, fino all’idea della parola come impasse del mentale, e ancora più oltre, all’idea ultimissima di un linguaggio fantasmatico estraneo alla comunicazione stessa, praticato da animali parlanti che si parlano addosso senza mai capirsi veramente, e questa è un’immagine che ben si attaglia ai labirinti linguistici e semiotici di un romanzo scomposto come “L’Oblò”.
- Non in modi identici però: il Sanguineti narratore ad esempio lavora su una lingua all’apparenza senza stile, mettendo uno dopo l’altro scorci onirici e ironici di un protagonista ebete e casuale, un “io” che non appartiene nemmeno del tutto all’autore, perso in un monotono tran tran quotidiano. Il Sanguineti poeta, invece, si muove dalle lande di una poesia informale, per arrivare a un plurilinguismo fatto di collage e montaggi, citazioni letterarie e una pluritonalità che sembra rimandare più alla musica dodecafonica di allora e a certa nuova pittura. Chi spinge molto sulla frantumazione è sicuramente Balestrini, con un uso molto particolare e originale del cut-up, catena di montaggio verbale che rimanda alla catena di montaggio dell’operaio; Balestrini mette in scena una realtà linguistica di frammenti, un mondo semantico in pezzi, forse prossimo al disturbo psichico della persona dissociata e, appunto, alienata. Egualmente radicale è Alfredo Giuliani, con “Il tautofono”, un “Materiali” Feltrinelli del 1969, testi-collage che non possiedono più nessuna collocazione semantica – sempre di Giuliani è l’inaudito e disarticolato “Il giovane Max” (Adelphi ’72), operetta aliena a ogni residuo di plot; se ormai anche la comunicazione è in mano al capitalismo, una soluzione può essere quella di ripensare il linguaggio, azzerarne il valore e la capacità di produrre un senso stereotipato e identificativo; radicalissimo appare anche il Pagliarani di “Fecaloro”, con un collage fortissimo di frammenti provenienti dai linguaggi scientifici, polemiche anti-atomiche e rivolte anarchiche, anche qui incentrato su una modernità urbana in cui lo spettro dell’alienazione è fortissimo; non raggiunge l’atomizzazione narrativa Arbasino o l’antiromanzo di un narratore puro come Germano Lombardi, abile a muoversi in un mix di generi tra spy-story e giallo. Differente, a mio parere, il cut-up anni ‘60 di Burroughs, che come spiega sinteticamente Filippo Polenchi (Alfabeta 2, 2018) servono “a rompere la necessità programmata da agenti del controllo – agenzie governative aliene, maghi, maledizioni, farmacopee nefaste, la setta degli assassini di Hassan-i-Sabbath -, fratturare questa “possessione” grazie alla casualità del taglio su giornali e opere letterarie. Per svelare una trama sotterranea della realtà, fatta di connessioni imperscrutabili, a meno appunto di non procedere con l’eventualità dell’atto fortuito.”
- La musica degli anni ’50, ’60 e poi ’70 ha una grande influenza su questo tipo di nuova narrativa di ricerca; per riannodare i fili e rendersi conto dell’incredibile fermento musicale di allora, serve leggere un volume bellissimo di Valerio Mattioli, “SuperOnda, storia segreta della musica italiana” Baldini + Castoldi 2016, in cui l’autore intreccia i percorsi della canzonetta sanremese di Claudio Villa e Nilla Pizzi con i corsi estivi di Darmstadt e la ricerca della Neue Musik perseguita da compositori come Karlhein Stockhausen, Luigi Nono, Luciano Berio, Bruno Maderna, Steve Reich, John Cage, passando per improbabili “Laboratori elettroacustici del Ministero delle Poste”, le partiture arcane e liturgiche di Giacinto Scelsi, l’esplosione delle colonne sonore italiane (il jazz per la commedia all’italiana utilizzato da Umiliani, Trovajoli, Piccioni), arrivando a Ennio Morricone, autore completissimo che unisce la musica leggera italiana alla severità dei compositori di Darmstadt riletti dall’aria giocosa e rivoluzionaria di John Cage. In Morricone tutto si fonde e raggiuge le sue vette supreme, il suono profondissimo si unisce alla casualità, arrivando all’esuberanza isterica della nuova musica giovane americana; ma quelli sono gli anni del Piper, della Roma pop ed eroinomane di Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, dei flussi di coscienza dei Pink Floyd di “Interstellar Overdrive”, dei testi frantumati di Ginsberg, Burroughs, Kerouac, della Dolce vita e dei beatnik, del Folkstudio, del Filmstudio e del Beat 72; in questo calderone flusso magmatico di sperimentazioni e ricerche apparentemente senza limite si inserisce la musica di ricerca di Franco Evangelisti e quella elettronica del gruppo di “Musica elettronica viva”, che coi loro suoni sembrano evocare una messa satanica lisergica per una hippie nation che verrà spazzata via dal brusco risveglio del 1969 con l’inizio degli anni di piombo, delle stragi, del terrorismo. Lì, il nostro paese e la sua vivissima cultura, imbocca una china discendente di cui si impregnano anche gli shake ballabili di pochi anni prima, la sonorizzazione sociale si fa più sinistra, caustica, staffilate atonali e disarmoniche che trovano ancora il loro apice in dischi acidissimi come quello unico e solitario dei “The Feed-Back”, o del Morricone del thrilling, coraggiosamente sbilanciato verso composizioni oniriche e sperimentali puntellate da echi spettrali e carillon infantili… Sono anche gli anni felicissimi di un cinema indipendente italiano che si confronta con quello americano (Brackhage, Warhol) e scopre i formati dell’8 e del 16 millimetri (Baruchello, Grifi, Nespolo, De Bernardi, Schifano, Gioli…).
- Su tutti vorrei ricordarvi un volumetto da edicola del giugno 1976, “UN FANTASMA ALL’OBITORIO” di Ivan Damm, alias Giò Signori. Il romanzo appare un pastrocchio indecifrabile, eppure accumula, pagina dopo pagina (nonostante la scrittura frettolosa) un fascino inaspettato, al punto che si fatica a interrompere la lettura. La vicenda, come in Spatola, è quasi impossibile da riassumere. Ivan Damm è il personaggio al centro della trama e si presenta come una sorta di investigatore dell’incubo, sempre a caccia dei misteri dell’aldilà. Uno strano fantasma gli recapita una pergamena, mettendo in moto una vicenda di spettri reincarnati che sembra richiamare alla memoria certi passaggi dello sceneggiato RAI “Il segno del comando”. Ivan Damm è una sorta di Ugo Pagliai invischiato in una vicenda torbida che mescola spy story, cospirazioni e vecchi conventi pieni di misteri. La svolta arriva quando il protagonista si reca in una città immaginaria, Atlantis, che somiglia moltissimo (cosa rarissima per questo tipo di letteratura) all’Italia di allora. La città (e con essa il mondo) sembra nelle mani di strane potenze occulte, in bilico tra forze politiche contrapposte (riferimento alla guerra fredda? Alla contrapposizione tra mondo occidentale e orientale?). Il caos è a un passo dallo scoppiare. Incidenti, attentati anarchici e strani hippies precipitano Atlantis in un clima da golpe imminente. La memoria corre al Piano Solo del 1964, o al recente tentato golpe destroide della notte dell’Immacolata del 7 e 8 dicembre del 1970. Il romanzo prende la strada dei deliri golpisti, inscenando sommosse di piazza, cariche della polizia e l’afa dei lacrimogeni su tutto. Giò Signori costruisce un suo “Todo Modo” horror in cui tutti i politici della nazione sono vittima di una macabra cerimonia sanguinaria (una bara piena di sangue infetto li contagia durante una cerimonia funebre dai fasti pietrificati, in tutto simile ai funerali di stato tenuti la mattina del 15 dicembre a Milano per le vittime di Piazza Fontana) e presto sostituiti da sosia e figuranti scelti per mettere a tacere tutto. Giò Signori ha la sfrontatezza di costruire un romanzo costellato da una miriade di pezzi tra loro non perfettamente combacianti (proprio come nella trama volutamente confusionaria de “Il segno del comando”, o nei furiosi incastri narrativi di Balestrini, Spatola, Giuliani), mescolando riferimenti a un mondo contemporaneo e situazioni classiche di un gotico oltretombale vivificato dal mix inaspettato di necrofilia e lotta di classe!
- Su Sanguineti servirebbe un articolo a parte. Mi preme comunque segnalare anche un’altra costruzione narrativa che qui mi pare essenziale. Prendo spunto da quanto ha scritto Massimiliano Borelli, nel suo fondamentale “Prose dal dissesto, antiromanzo e avanguardia negli anni sessanta” (Mucchi, 2013): “Il giuoco dell’oca” (1967) è il secondo romanzo di Sanguineti, per me il suo lavoro più stupefacente (assieme ai testi per il teatro), un romanzo costruito come una gigantesca e caotica citazione visiva, scritto partendo da una serie di immagini sforbiciate, profanate e montate come se fossero tante finestrelle di un gioco a caselle (il giuoco dell’oca, appunto) visto dall’oblò di vetro posto sul coperchio di una bara, citazione visiva sintetica e fortissima, ripresa da una scena del film “Vampyr” di Dreyer: tutto il romanzo è giocato da questa soggettiva oltretombale in “soggettiva”, dove l’io narrante nella bara scorre dalla sua prospettiva rovesciata e orizzontale i centoundici paesaggi delle caselle, costituiti da un assemblaggio di fotoromanzi, lettere, inserti, rotocalchi, quadri d’arte contemporanea! E che dire delle “Storie naturali”, pubblicate nel ’71? Canovacci abbozzati per una messa in scena teatrale (immaginata e poi non svolta da Ronconi) che, partendo dalle pièce beckettiane (Beckett ha un peso enorme sulle avanguardie degli anni ’60) coagula lacerti, tracce, indizi post-mortem in spazi ancora in bilico tra luoghi chiusi (una camera, un pozzo), in un tempo immobile, attraversato da personaggi mummificati in un buio che si fa, mano a mano che la recita procede, totale e impenetrabile!
- Verso la fine degli anni ’90 s’era brevemente diffusa una certa febbre da “taglia e incolla”. Venivano tradotti in Italia autori americani di narrativa d’avanguardia e contemporanea, in particolare da editori come Fanucci e Shake. Nel primo numero della rivista di estetica “àgalma” (Castelvecchi, 1999), Mattia Carratello, responsabile editoriale della collana “AvantPop” per Fanucci, scriveva un saggio che riassumeva la questione del plagio e del taglia e cuci narrativo, ricordando come il computer avesse reso infinitamente più semplice il cut & paste, complici comodi software di scrittura. In quell’articolo Carratello aveva il merito di parlare anche di Kathy Archer e di riportarne uno stralcio di intervista, in cui l’autrice faceva del plagiarismo la sua scelta stilistica dominante. Ricordo di aver letto quelle poche righe e di aver provato un senso fortissimo di riconoscimento, quasi una febbre (la Acker parlava di non aver mai avuto una propria voce letteraria, pur sentendo l’esigenza di scrivere; così aveva cominciato ad improvvisare su testi altrui, abitandoli per poterci fare qualcosa); della Acker, allora e oggi, circolava pochissimo, solo un romanzo della SugarCo del ’91 pressoché introvabile e una edizione della Shake del suo “Don Chisciotte”, appena tradotto in quel ’99. Ricordo anche che poco dopo, complice un minifestival di letteratura che si teneva al castello di Belgioioso (Pavia), conobbi, allo stand della Shake, Marco Philopat. Comprato qualche libro, non so come, essendo Philopat una persona alla mano, il discorso cadde sul libro della Acker e su come mi sentivo influenzato e attratto da quella scrittrice. Lui si dimostrò sinceramente sorpreso che avessi letto il libro che avevano editato; io allora chiesi subito se ne avrebbero tradotti altri, ma lo scrittore, sorridendo, mi smontò subito, dicendo che a leggere la Acker eravamo rimasti io e lui… Salto ad oggi: ho appena finito di leggere “Remoria, la città invertita” (Minimum fax, 2019), altro stupendo volume di Valerio Mattioli che ha il merito di ricordarmi di Stefano Tamburini, altra figura nodale del ritaglia e incolla, dei fotomontaggi, dei furti letterari, plagi e détournement anni ’80. In Tamburini si coniugano le istanze del movimento del ’77 con il dadaismo, il situazionismo, la fantascienza e una visione aggressiva, coatta e sotto anfetamina di un presente ormai intossicato dai linguaggi della comunicazione: la Roma di Tamburini sostituisce gli sproloqui verbali di Arbasino e Sanguineti con teste di cazzo, stronzi, automi cibernetici sputati fuori da una periferia borgatara ed eroinomane che non ha più nulla da spartire con la plebaglia borgatara di quel poverino di Pasolini! Recente è anche il contributo di Kenneth Goldsmith, “Scrittura non creativa”, pubblicato da Nero edizioni nel 2019. Goldsmith aggiorna all’oggi la ricerca testuale aperta negli anni ’60 dalle neoavanguardie (anche se nel volume l’autore non accenna minimamente al Gruppo ’63), almanaccando le nuove possibilità offerte dal copia e incolla digitale e del web: ecco allora chi trascrive per intero, una pagina al giorno per un anno, su un blog, “Sulla strada”; o chi si appropria del testo contenuto in un’intera edizione del New York Times, pubblicando il tutto in un libro di 900 pagine; e che dire di uno scrittore sul lastrico che ha raccolto tutte le richieste di carte di credito da lui indirizzate alle banche per metterle in un libro on-demand di 800 pagine; o del poeta che ha fatto l’analisi grammaticale di un intero libro di grammatica del XIX secolo, fino a un gruppo terroristico di scrittori che raccoglie il peggio che Google produce nei risultati di ricerca?... Scrittori non originali, accumulatori di linguaggi, tra situazionismo e poesia concreta, in territori in cui il linguaggio è un materiale informale da gestire…