L’inquilino del terzo piano è il primo romanzo di Roland Topor, personaggio per il quale sono necessarie molteplici definizioni: illustratore, scrittore e scenografo, ma anche paroliere, attore, costumista, fotografo e chissà cos'altro. Pur nella difficoltà di trovargli un omologo, voglio uscire dal coro del già detto, mettendolo accanto al nome di Boris Vian. Ho cercato invano un collegamento tra i due, non trovando quasi nulla: la città di Parigi, alcune illustrazioni del primo usate a corredo di libri del secondo e il film d’animazione Il pianeta selvaggio, disegnato da Topor e musicato da Alain Goraguer, che collaborò diverse volte con Boris Vian. Un po’ poco, me ne rendo conto, ma nulla mi toglie dalla testa che in qualche modo si possano associare i loro nomi. Topor e il grande schermo, in ogni caso, si sono sempre attratti l’uno con l’altro; basti ricordare i disegni della lanterna magica che il francese realizzò per il film Casanova di Federico Fellini e naturalmente il soggetto de L’inquilino del terzo piano, diretto da Roman Polanski e tratto dal romanzo del 1964, Le locataire chimérique. Il cerchio si chiude. Non vi tedio ulteriormente sulle vicende artistiche e personali di Topor, vi basti sapere che dopo l’incisione di Mirando Haz, la prossima grafica che voglio appendere in salotto è una delle sue. Promesso.
Torno a dove mi ero fermato poc'anzi. Non lo dico a caso, il libro in fondo si potrebbe sintetizzare proprio così. Scritto nel 1964, quando Topor aveva ventisei anni, è un romanzo breve, dal ritmo incalzante, che per certi versi può essere paragonato ad alcuni titoli dei più ben noti Edgar Allan Poe o E. T. A. Hoffmann. Non me ne voglia ora il lettore, se a causa della mia pigrizia congenita, farò ricorso ai termini “onirico” e “surreale” per descrivere L’inquilino del terzo piano, perché a differenza di tante altre volte siamo veramente alle prese con un incubo, di quelli che si vorrebbero finire in fretta. Da lettore, devo dire che la sensazione è proprio questa, tanto ho desiderato arrivare alla parola “fine”. Non perché il libro sia scritto male, tutt'altro, ma per far evitare di tirare per le lunghe le sofferenze di Trelkovsky, il protagonista di tutta la storia.
Trelkovsky è una persona apparentemente normale, con il suo lavoro impiegatizio, qualche amico e una vita che, seppur incolore, è indubbiamente la sua. Sfrattato dall'appartamento parigino che ha occupato per lungo tempo, trova rifugio in una nuova abitazione, lasciata libera dopo che Simonetta Choule, la precedente inquilina, si è suicidata apparentemente senza motivi plausibili. Il nuovo alloggio non è per nulla idilliaco, così come non lo sono i rapporti con i vicini di casa, che lo accusano di essere oltremodo rumoroso. Pagina dopo pagina, l’identità del protagonista vacilla, Trelkovsky si spoglia letteralmente del proprio passato e assume una nuova identità. Nuova o forse vecchia, vai a saperlo, visto che con la complicità degli amabili vicini si trasforma in quella Simonetta Choule che ha abitato prima di lui tra le quattro mura dell’appartamento, Gli va reso atto che piegarlo a questo destino non è stato facile, probabilmente nemmeno per Topor. Trelkovsky, pur essendo la vittima designata, ha combattuto a lungo per tirarsi fuori dall'incubo nel quale era stato ficcato. Perché proprio a lui? Non è dato saperlo, egli se lo chiede e arriva alla conclusione che è un po’ come per la mosca che cade nella tela del ragno: nulla di personale, semplicemente passava di lì in quel momento...
Topor mescola abilmente le carte, come sua consuetudine, tanto che non si capisce mai bene si siamo alle prese con mostri, fantasmi, incubi o semplicemente con la malvagità fatta a persone. Persone che nel caso specifico non solo sono i vicini di casa del protagonista, ma anche chi dovrebbe aiutarlo a restare a galla, come le istituzioni, gli amici, i colleghi e gli affetti. L’inquilino del terzo piano mette tristezza, non solo paura. È facile immedesimarsi con Trelkovsky, entrare in empatia con la sua solitudine, il suo essere sostanzialmente un emarginato, il suo tentativo di coniugare Io personale con ciò che gli altri vorrebbero lui fosse. Quale incubo ci spaventa di più? I fatti insoliti che gli succedono o il vederlo via via declinare ai margini della società? Non fa forse di tutto, per apparire come gli altri vorrebbero che fosse? Domande a cui non ho risposte, per un libro che come spesso succede, si può leggere su livelli e piani diversi. A spaventare non è solo il terzo, questo mi sembra evidente. Tra le pagine Topor ha infilato personaggi inquietanti; non parlo solo della portinaia o del padrone di casa, il cui essere “strani” è del tutto evidente, ma alludo anche a chi avrebbe potuto e dovuto salvare Trelkovsky, come il farmacista, il poliziotto e l’infermiera.
Io dico che L’inquilino del terzo piano si potrebbe leggere anche al contrario, in fondo inizia e finisce nello stesso modo. O forse è il contrario, chi può dirlo?
Roland Topor, con Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky, nel 1962 diede vita al "Movimento panico", una sorta di variante al surrealismo classico nella quale trovano spazio la confusione, l'umorismo, il caso e l'euforia. Ecco, L’inquilino del terzo piano può essere tranquillamente sintetizzato come un libro nel quale si alternano più fasi, confuse tra loro, dove inizio e fine combaciano. Per questo concludo con... Un titolo azzeccato, questo, in periodo di cattività casalinga.