Horror

Il gioko (perverso) della scuola: Dufossé, Gandus e Bava (1989 – 2015)

Giovedì, 18 Luglio 2024

Grazie a un amico vengo a sapere dell’esistenza del romanzo di Christophe Dufossé L’ultima ora (2002), tradotto da Einaudi nel 2004. Trovo facilmente una copia. L’amico mi informa che ne hanno fatto recentemente un film, visionabile su Amazon Prime. Il film (molto bello) prende altre strade rispetto al libro, virando verso tematiche ambientali. La quarta di copertina dell’edizione Einaudi riserva poche, stringate, righe sull’autore: Dufossé è nato nel ’63, fa l’insegnante e questo è il suo primo romanzo. Su internet vedo che dopo ne ha scritti altri, mai più tradotti.

L’ultima ora è un romanzo che parla di scuola e lo fa senza lesinare su un’angoscia che mi ricorda narratori a cui mi sento molto legato. Il protagonista, tale Pierre Hoffman, lavora in un istituto della provincia, una scuola media di Clerval, nel dipartimento di Doubs, nella regione della Borgogna-Franca Contea. Questa è la prima sorpresa. Le medie sono considerate l’anello debole della scuola italiana, spesso denigrate, ancor più spesso dimenticate, anticamera da cui buona parte di chi vi lavora vuole fuggire. Hoffman (nel cui cognome si intravedono lontani bagliori gotici) subentra come insegnante a un tale Capadis, collega di cui sappiamo, fin dalle prime righe, che si è suicidato. Capadis si è buttato dalla finestra della scuola, dalla finestra della sua classe, la Quarta F. Dufossé è bravo nel descrivere l’ambiente scolastico con poche, precise, pennellate. Capadis era un collega con poche ore, misterioso, di poche parole, appartato come lo sono molti colleghi discreti. La sua fine appare ancor più inspiegabile, così come l’assurdo gesto di averlo fatto a scuola, sotto l’occhio dei suoi ragazzi. Fin dalle prime pagine, Hoffman, forse per sfuggire all’inevitabile routine del suo lavoro e della sua vita, non riesce a smettere di interrogarsi sui motivi che hanno spinto il collega a togliersi la vita. Presto, prestissimo, la vita della scuola, il solito brusio burocratico di comunicati, graduatorie, attività parascolastiche, sommergono il ricordo negativo. Hoffman viene incaricato dal Dirigente di prendere il posto del collega.

Quell’incipit, il collega che si butta dalla finestra, l’arrivo da moribondo in ospedale, la notizia ferale della morte, mi hanno ricordato pesantemente quello similissimo dell’Inquilino del terzo piano di Roland Topor. L’ambiente, seppur diverso nelle funzioni, è sovrapponibile: impiegatizio, orari, dispacci, programmazioni annuali, settimanali, la routine delle lezioni, delle interrogazioni. Dufossé comincia a spargere piccoli segnali inquietanti tra le sue pagine. La Quarta F appare fin da subito con qualcosa di sinistro. Ragazzi e ragazze addestrati a un comportamento collettivo all’apparenza ordinato, mansueto, ligio ai codici scolastici e degli adulti. Eppure appaiono come un branco muto, silenzioso, fin troppo acquiescente. Hoffman è un uomo adulto non sposato, senza una relazione sentimentale, con una sorella problematica come unico parente prossimo. L’uomo vive in uno stabile all’apparenza tranquillo, appena screziato da piccoli insignificanti atti di vandalismo. Un giorno dopo l’altro Hoffman esce dal suo condominio e va a scuola, nella sua classe acquisita. Cerca di scoprire chi ha davanti, i gusti e gli interessi di una generazione di giovani che appaiono già livellati e appiattiti sugli stessi gusti, gli stessi film, le stesse musiche. Poi arriva il giorno del funerale di Capadis, con l’intero istituto, colleghi e alunni a prendervi parte. Alla fine della funzione, mentre la bara scivola nella fossa, una delle alunne (una tale Sorman, ragazzina problematica con alle spalle un’illecita relazione con un sorvegliante trentenne allontanato per pedofilia) si avvicina a Hoffman e gli bisbiglia poche, rapide parole. Gli dice di stare attento, di non lasciar loro appigli, di non lasciarli entrare dentro di lui, dentro le sue debolezze, o gli faranno fare la fine di Capadis. Ecco, a questo punto, senza bisogno di calcare la mano, Dufossé ha già portato il suo libro sotto l’ombra di quello di Topor, nella cornice straniante della letteratura di Kafka e Pirandello.

Mentre Hoffman ha a che fare con la sorella (in pieno esaurimento, mentre va a letto con sconosciuti e beve come una spugna), si gode le prime vacanze, infine riceve per posta una scatola con dentro una scimmia di peluche ripiena di vermi putrescenti. La scimmia ricorda qualcosa di King, i vermi un mondo sotterraneo e putrescente alla Fulci. Le giornate passano nel conformismo di una scuola di provincia in cui i professori sono solo figure sfuocate che si muovono sullo sfondo, ognuno preso in un conformismo burocratico che non ispira alcun spirito critico negli alunni. Intanto la Quarta F è sempre imperturbabile, perfetta, mai impreparata. La Sorman intanto riappare col viso bendato e sfregiato da una misteriosa aggressione con un taglierino. Il taglierino, negli anni ’80, era un sublime strumento di morte nelle pellicole di Lamberto Bava. La Sorman bendata, irriconoscibile, riporta ancor più al romanzo di Topor. Tra piccoli e insignificanti eventi da romanzo scolastico di provincia, fulminanti bozzetti sull’ambiente, Hoffman stringe amicizia con un collega di matematica a un lustro dal pensionamento, tale Accetto, il quale lo mette in guardia sul fatto che nessuno, dopo la morte di Capadis, avrebbe voluto aver a che fare con quelli della Quarta F, ragazzini che hanno sempre ispirato una certa diffidenza e paura negli adulti. Fuori dalla scuola la vita di Hoffman scorre in un tranquillo anonimato relazionale, in un girovagare lineare nelle vie tranquille della sua cittadina. Poi comincia a ricevere la scimmietta coi vermi, a vedere, nel traffico, i volti di alcuni alunni della F, in particolare le garze bianche come neve sulla faccia della Sorman. Riceve anche una misteriosa videocassetta con dentro delle riprese amatoriali di una spiaggia, il mare, le onde, e alcuni bambini di otto anni che fanno il bagno. In seguito capirà che si tratta degli alunni della F, insieme fin da piccoli, fin dalle prime classi delle elementari, insieme da sempre. Un branco, silenzioso, chiuso al mondo esterno, impermeabile a quello degli adulti. Come alieni con sembianze umane. Imitano le regole di comportamento dei grandi, ma non le interiorizzano, non le fanno loro. Non le riconoscono. L’horror è tutto qui. Senza ammazzamenti o stupri. Nell’indifferenza adamantina e insondabile di questi ragazzini e ragazzine. Lontani persino dalle generazioni dei loro fratelli maggiori, quelli dell’ultima ventata rivoltosa contro i grandi della terra.

I ragazzini della Quarta F non hanno nulla da spartire coi loro anonimi professori, tutti presi dall’idea del pensionamento, e nemmeno con i ragazzi che sfilano per il mondo contro i nuovi vampiri delle multinazionali. Sono gli anni appena successivi al G8 di Genova, un evento che ha segnato l’inizio di quel decennio. Il millennio cambiava di nuovo e quella generazione era interessata con maggiore costanza alla politica rispetto a quella dello yuppismo, era interessata ai diritti umani e civili, all’ecologia, a un commercio maggiormente solidale. Genova cominciò come una festa di massa, un ballo collettivo contro lo strapotere delle multinazionali. Toccava a quella nuova generazione, nata alla fine dei ’70, mentre l’eroina dilagava nelle strade e spegneva gli ultimi bagliori di creatività e ribellione, mentre dalle tv a colori uscivano magmi di robot e pubblicità, gridare e alzare le mani mentre attorno tutto precipitava. Camionette, idranti, manganelli, percosse, poliziotti impazziti, anfetamina, derive di summer of love e macelleria messicana. Bolzaneto e le caserme sarebbero state l’ultima bolgia in cui spegnere ciò che rimaneva di quella generazione. Dopo sarebbe rimasta solo l’afasia, l’indifferenza a qualunque modello di pensiero unico, l’allergia verso ogni ideologia. Ormai siamo alle ultime pagine e la gita di fine anno incombe. Pure l’autista, a disagio, si lamenta di quei ragazzi che non si muovono, non urlano, paiono bambole di vetro in una vetrina. Le scogliere, le strade aggrovigliate. La libertà infinita del mare. Hoffman a sostituire un malaticcio Accetto, Hoffman sempre come secondo, chiamato di corsa, ma inevitabilmente destinato a fare da testimone a vuoto delle ultime pagine. Un vuoto che appare come senso ultimo del libro. Hoffman confessa ai suoi ragazzi che nessuno si ricorda degli anni delle medie, li rimuove, ricorda i primi sconvolgenti anni delle elementari, poi l’adolescenza e il corpo che si trasforma delle superiori, infine le prime avventure della vita sul lavoro, all’Università, gli amori, le amicizie. Ma delle medie si ricorda niente. Tutto cancellato, rimosso. Trovo sia una grande verità. Io non ricordo nemmeno un giorno delle mie medie e per ironia della sorte mi è capitato di lavorarci. Comunque Hoffman, più che bersaglio di un’occulta persecuzione, di oscuri presagi, alla fine appare destinato ad essere il muto e impotente testimone di quel che la Quarta F ha deciso da tempo. Approfittare di una distrazione degli adulti, rubare il pullman e gettarsi dalla scogliera. Moriranno tutti, compatti nell’estrema decisione di sfuggire a quel che li avrebbe aspettati dopo: la solitudine della vita adulta, lo squallore nullificante del mondo, il lavoro scolastico, il lavoro per sopravvivere, una subordinazione che li avrebbe separati, divisi, spezzati nella loro forza, nella loro unità. Il gruppo, il branco alla fine si sarebbe diviso, anche loro avrebbero finito per dimenticare, per dimenticarsi. Forse, col suo suicidio, Capadis voleva diventare uno di loro.

Chiudo L’ultima ora e mi chiedo come mi fosse sfuggito all’epoca un libro così, oltretutto pubblicato per Einaudi. Bella edizione. Che anni erano quei primi duemila? Anni in cui la politica sembrava incapace di ricostruire sé stessa, in cui un implicito senso di disfacimento e frantumazione sembrava ormai qualcosa di inevitabile. Anni di finanza creativa, illusionismo, cricche affaristiche e gruppi occulti. La sensazione è quella di un paese sempre più povero e ingiusto, in cui corruzione e arroganza non sono più dissimulate all’opinione pubblica, anche perché la società stessa è disinteressata ai grandi e piccoli delitti, ai comportamenti sconvenienti, a un lascito civile per le generazioni future. L’ultima ora mi ha ricordato da subito anche un'altra cosa, un film televisivo che avevo visto anni prima. Si intitolava Il Gioko, diretto dal regista Lamberto Bava. La sceneggiatura era di Roberto Gandus. La trama anticipava molte cose del romanzo di Dufossé: anche lì c’era la provincia (di Pisa), una scuola media (privata), una giovane insegnante che subentrava a una collega che si era buttata giù come Capadis. Poi partivano subito cose strane: gli alunni erano ragazzini con la divisa da collegio, tutti perfettini, fighetti, all’apparenza degli angeli studiosi, capaci. In quei visini di cera ci vedevi ben altro, figli di una nuova classe dirigente italiana che in quegli anni la stessa Mediaset andava forgiando. Le cose strane c’erano quasi subito: l’idea che la scuola fosse stata un museo dedicato a un qualche criminologo alla Lombroso, tanto che nei sotterranei erano stati messi i vari preparati anatomici sopravvissuti della collezione ottocentesca; la professoressa, piena di entusiasmo nelle prime inquadrature, veniva smantellata nelle sue certezze un pezzetto alla volta, riceveva strane telefonate, si sentiva spiata nel privato, riceveva strane videocassette in cui qualcuno la filmava fuori e dentro la scuola. Alunni che sparivano, velate minacce, la preside (una splendida Daria Nicolodi) già manager in anticipo sulla Buona Scuola renziana. Il Gioko di Bava/Gandus era uno sceneggiato bellissimo. Nel finale il tutto virava altrove, ma sempre con parecchie idee di fondo.

Di recente (ed è il motivo che mi ha convinto a mettere insieme queste riflessioni) scopro che di quel film televisivo ne è stato ricavato un romanzo a firma dello sceneggiatore originale. Roberto Gandus è stato uno sceneggiatore importante negli anni ’70 e ’80. Ha lavorato a cose diverse, interessanti, film per Eriprando Visconti, Joe D’Amato, Tessari, horror come Macabro di Lamberto Bava o Nero Veneziano di Ugo Liberatore. Negli anni Gandus ha scritto anche numerosi romanzi, spesso dei gialli. Un libro gotico bellissimo con Pupi Avati. Infine questo Il gyoko uscito per la Golem nel 2015. Gandus riprende e rielabora il soggetto del film televisivo e ne ricava un romanzo parecchio diverso. In primis cambia l’ambientazione e il tempo in cui è calato il racconto, Torino, nella seconda metà degli anni ’70. Per la precisione il ’76. Un liceo artistico, un giovane supplente, un bidello handicappato, una ragazza cinese vittima di bullismo (ma allora non si chiamava così, non si chiamava e basta, era violenza, punto), una classe di adolescenti problematica e violenta. Siamo lontani dai burattini impenetrabili di Dufossé o di Bava: i ragazzi del “Gyoko” sembrano calchi di gesso dei sanbabilini del tempo, dei neofascisti, o dei ragazzotti sadici del Circeo; una truppa eccitata e perversa che sfoga il suo divertimento sessuale sulla ragazza cinese, colpevole di essere diversa dagli altri. L’idea di fondo rimane la stessa del film televisivo: la ragazza viene chiusa nei sotterranei gotici della scuola, sottoposta ad ogni genere di sevizia e violenza fisica. Al piano di sopra, nel mondo dei viventi verrebbe da dire, il giovane supplente Andrea Sereni comincia a percepire la tensione che scorre sotterranea nei suoi nuovi alunni. Di suo l’uomo ha già un privato burrascoso: aspirante pittore, vive una relazione sentimentale burrascosa con una donna più grande, da cui si sente usato. Alla fine romanzo e film sono molto differenti, soprattutto nel finale del libro, maggiormente amaro e cattivo. Per il resto il libro non restituisce particolari descrizioni del mondo scolastico, limitandosi a mettere in scena luoghi comuni ormai desueti.

Più interessante, in conclusione, sottolineare le evidenti analogie tra il soggetto televisivo di Gandus e il libro francese: stesso punto iniziale (il docente che arriva o sostituisce un collega che si è suicidato buttandosi dalla finestra della classe), continuazione (il gruppo classe compatto, il sentirsi minacciato, seguito, spiato dai ragazzi, le videocassette e altri presagi), il medesimo epilogo (durante la gita). Il nucleo è lo stesso, riadattato in base all’epoca: nello sceneggiato di Bava/Gandus il tema ruota sul trauma sessuale (della professoressa), sulle debolezze degli adulti su cui i ragazzi e le ragazze della classe fanno presa. Nel libro di Dufossé i ragazzi non vogliono crescere e sono disposti a morire pur di non spezzare il loro legame adolescenziale, tema tipico di quegli anni ’90 e 2000. Nel film tratto dal lavoro di Dufossé la vicenda è riscritta secondo i parametri di oggi, con le tematiche ecologiste, i disastri ambientali e i cataclismi climatici a fomentare le paure dei nuovi giovani. Che tra il lavoro di Bava e il romanzo francese vi siano numerosi punti di contatto è evidente. Deve essersi trattato di una sorta di plagio mai dichiarato. Il punto di partenza (lo sceneggiato televisivo dell’89) riprende la tematica scolastica già presente in molti thrilling degli anni ’60 e ’70 (tutto parte da “Omicidio al riformatorio” un Kriminal del ’64 dove abbiamo tutto il repertorio di studentesse viziose, professori loschi, mutandine, reggicalze, prostituzione minorile, delitti e violenze varie che saranno subito riprese dal cinema del periodo e soprattutto dai fumetti horror-erotici di Barbieri & Cavedon), ma la declina in modo nuovo, limitando e quasi eliminando le perversioni del gineceo degli anni ’70. Rimane di fondo il tema della violenza sessuale e un confronto/scontro con una classe di “stronzetti” perfettini. In questo Dufossé riprende l’idea di coniugare il soggetto scolastico col genere ed evolve altrove, spostando la vicenda nel cuore degli anni zero, mettendo in scena i cambiamenti neoliberisti impressi all’istituzione educativa.

Per concludere, questi lavori raccontano gli ultimi trent’anni della scuola (italiana e non solo), dalla fine degli anni ’80 a oggi, di una scuola che vede entrare in crisi la partecipazione collettiva e sembra accettare la riproduzione delle disuguaglianze economiche e sociali degli anni ’80. Il movimento dell’85 è un detonatore che dura poco: l’apparato ideologico degli anni ’70 coi suoi sistemi educativi inclusivi sembra entrato in crisi; gli squilibri tra nord e sud sono in crescita accelerata e sullo sfondo si affacciano nuove dilaganti teorie neoliberiste. C’è chi parla di abbassamento del livello di istruzione, di analfabetismo di ritorno, di abbandoni scolastici. Negli anni zero è l’autonomia approvata da governi di centro-sinistra (Prodi/D’Alema) a disegnare un profilo aziendalistico dell’istruzione, col mantra di adeguare l’apprendimento alle nuove esigenze del globalismo neoliberista. Ciclicamente è accaduto che la scuola, in momenti in cui si manifestava una crisi della competitività economica occidentale, venisse accusata di essere responsabile di una caduta degli standard dell’istruzione. Il processo di trasformazione dei sistemi scolastici di questi ultimi vent’anni si è palesato attraverso un decentramento, una privatizzazione, un maggior peso di genitori e politiche di mercato, con l’idea di introdurre la concorrenza anche nell’istruzione. Il decentramento (fin dai primi anni ’90 è stata soprattutto la Banca mondiale a sostenere con più continuità le politiche di decentramento) ha significato una redistribuzione del potere sulle varie unità territoriali (regioni, comuni, province, provveditorati), portando di fatto all’estinzione di un sistema scolastico centralizzato e uniforme di servizi, aprendo a una competitività multipla sull’addestramento degli insegnanti, sul bilancio della scuola, i curriculi, etc.  

Gli anni zero in cui Dufossé scrive il suo romanzo sono quelli in cui la Banca mondiale ridefinisce i criteri dell’istruzione insistendo sui nuovi mantra del decentramento e della valutazione dei risultati (degli allievi e degli insegnanti), puntando sull’abilità di produrre, selezionare, adattare e commercializzare la conoscenza. Nella realtà si arriva (come sempre) a intravedere un futuro a cui Roberto Gandus, Lamberto Bava e Christophe Dufossé non si erano spinti, con istruttori controllori (e non insegnanti) presi a sviluppare fantomatici piani di apprendimento individualizzati, a sostituire vecchi modelli di studio a memoria con nuovi tipi di apprendimento che anticipino l’adattamento mansueto necessario sul lavoro. Per concludere, la scuola addestra capitale umano da immettere in un mondo del lavoro con salari bassi, precarietà e sfruttamento, il tutto sotto l’impostura del “merito” (parola che piaceva parecchio a Renzi e che Valditara e Meloni hanno rispolverato prontamente). Se poi qualche studente alza la testa, protesta, scende in piazze e manifesta contro il massacro a Gaza o altre ingiustizie, lo fai manganellare dalla polizia.

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