Soppesare l'attività letteraria di uno scrittore è opera ardua. L'operazione risulta più complicata in questo caso, per via di alcuni elementi. In primo luogo, Bruno Vacchino è un autore eretico, lontano da ogni corrente letteraria, volutamente escluso dal mondo, che ha sempre guardato alla letteratura con un occhio talmente critico da portarlo a criticare anche ciò che normalmente si ritiene intoccabile. Il corpus di opere uscite dalla sua penna è ristretto e omogeneo: due libri di poesie e due di racconti, separati da periodi lunghissimi di silenzio. La sua estraneità a ogni istanza editoriale lo ha sempre tenuto lontano dal pubblico di lettori - i suoi libri sono stati tutti autoprodotti -, ma chi lo conosce ha sempre finito per guardare a lui come a un maestro, per via della sua articolata cultura e dei modi di proporsi eccentrici. L'intento viene ulteriormente aggravato dal peso della posizione di chi scrive: parlare del proprio padre è sempre un'operazione rischiosa.
Bruno Vacchino è nato a Saluggia, un piccolo paese in provincia di Vercelli, nel periodo tra le due guerre, nel 1939. La famiglia viveva grazie al talento di mio nonno paterno nel campo della sartoria e questo ha permesso a mio padre, unico in tutto il paese per la sua leva, di frequentare prima gli studi classici e poi i corsi di legge all'Università di Torino, dove ha conseguito la laurea. Il suo primo libro rappresenta qualcosa di molto insolito: Vacchino esordisce con un poemetto astronomico dal titolo Materia. Il libro tratta della creazione e della composizione del cosmo attraverso un verso libero solido, materico, in grado di trattare con conoscenze scientifiche articolate l'annosa questione. Quel libro arrivò anche tra le mani della grande astrofisica Margherita Hack, la quale spese parole molto positive a proposito della composizione.
Fotografia della lettera originale di Margherita Hack a Bruno Vacchino.
A quella pubblicazione negli anni Ottanta non ne seguiranno altre, almeno per quanto riguarda lo scorso millennio. Il non aver trovato una giusta collocazione editoriale castrerà le aspirazioni di Bruno Vacchino. Ma la sua attività proseguirà in silenzio, sotto l'egida di una continua ricerca poetica facilmente identificabile. Il suo verso libero, immaginifico, perpetuamente rivolto alle magnificenze della natura, troverà sfogo in molte poesie battute a macchina e gelosamente custodite in una cartellina conservata sul fondo di un mobile in legno. Sarà solo nel corso del secondo decennio del nuovo millennio, a oltre trent'anni di distanza, che quelle poesie verranno alla luce, ancora con una pubblicazione corsara. Il testo, per la Novilunio Stampe Amatoriali e intitolato Madri profonde, è la raccolta delle migliori liriche scritte in quel trentennio. Dominano la raccolta i temi della natura, dell'amore per la vita, della morte come un trapasso indolore e scevro dalla visione cristiana del trapasso, del trascorrere del tempo, dell'incessante dedizione all'astronomia e alla contemplazione delle cose terrene.
Di seguito, l’ultima poesia della raccolta Madri profonde (Novilunio Stampe Amatoriali, 2016).
Il grande sonno
Non sono il triste cavaliere nell’onda della notte,
né il giovane dell’ora perduta con le torce capovolte,
e con me non trascino falci, né opprimenti cortei.
Vengo con lo splendore cinereo della luna
e l’ardente soffio delle stelle,
e come messaggeri mi precedono
l’immobile attesa della neve
e il paziente esilio dei tarli.
Con me non s’aprono le roventi porte del giudizio,
né tormenti d’acque.
Dalle mie mani avrai il volo dei gufi radente sul tramonto
e il sereno procedere della lontra,
e, per conforto, l’innocente letargo delle talpe
e le effimere colonne dei moscerini
turbinanti sui sentieri dell’estate.
Verrò coi castelli fatati della brina,
coi miei soli appassionati d’ottobre,
con necrofori e collemboli a sciogliere il tuo corpo;
io ti nutrii con fuoco e radici
e ora in me ritorni, alla Terra,
alle mie rocce porose come il crepuscolo
in cui dormono i gamberi.
Scendono i miei fiumi nel fragore dell’inverno
e pigramente si snodano le mie aurore,
nei cieli si annida il richiamo dei galli.
Con me trascinerò le mie barche e il canto al crepuscolo dei morti.
Ti darò amori duraturi,
le brucianti foglie dell’autunno e la loro senile esperienza;
e per dormire avrai il fioco bagliore dei pianeti
e la fuggevole comparsa delle comete,
e nei tuoi sogni, come stendardi, agiterò
le infinite ragnatele sfolgoranti tra le zolle smosse
sotto il sole cadente della fredda stagione.
Nel frattempo, Bruno Vacchino ha terminato il suo incarico di docente di francese presso gli istituti scolastici superiori e si è rifugiato in Madagascar, a vivere lontano dal mondo occidentale che nei suoi scritti successivi avrebbe messo in cattiva luce. Proprio dal soggiorno nella lontana isola al Tropico del Capricorno sono venuti i due libri successivi. Il primo è "Parla coi morti": una serie di pannelli narrativi incentrati sul tema della morte e ambientati al paese natio dello scrittore, Saluggia. Una prosa leggera, ma definitiva, anima il testo, in un tono cinico che sa spaziare dal satirico al tragico, con uno spirito critico che agita le trame e mette in controluce gli aspetti contradditori della nostra società. Ne esce un ritratto malinconico della sua terra natia, un Amarcord spettrale riletto sotto la lente d'ingrandimento della letteratura russa, a cui sempre Vacchino ha fatto riferimento.
Il secondo testo è Un matrimonio e altri racconti, composto da tre racconti lunghi. Il primo racconto, il più importante e quello che dà il titolo alla raccolta, è un vero e proprio gioiello della letteratura nostrana, mai scoperto da critici e pubblico. Il protagonista viene inviato dai genitori a presenziare a un matrimonio, con tutto il suo bagaglio di cinico furore iconoclasta nei confronti del mondo. Ma il matrimonio non viene celebrato (o il protagonista non ha saputo trovare il luogo dove era stato officiato) e accadono fatti singolari. Al ritorno a casa, ai genitori viene narrato un matrimonio fasullo, inventato, ma a tinte tragicomiche. Gli amanti della grande commedia all’italiana del cinema degli anni d’oro hanno a lungo cercato un equivalente su carta di quelle pellicole. Questo testo rappresenta un esempio di come i grandi film di Dino Risi, Pietro Germi, Vittorio De Sica e Mario Monicelli possano possedere un parente prossimo su carta. Non solo: i testi di Bruno Vacchino rappresentano un esempio di letteratura fantastica spettrale, ma senza fantasmi, come il saggio “Ritorni spettrali. Storie e teorie della spettralità senza fantasmi” (a cura di Ezio Puglia, Massimo Fusillo, Stefano Lazzarin, Angelo M. Mangini) aveva configurato. Perché “Un matrimonio” è una sorta di viaggio fantastico nei meandri dell'Italia sorridente e rampante degli anni del boom, un po' "Il sorpasso", un po' "Anima persa", un incredibile racconto di fantasia esuberante, una critica feroce a tutti i nostri costumi, di ieri, di oggi, di sempre.
Non c'è bisogno che suoni la campana, perché a ogni passo, a ogni respiro, una parte della tua vita si è già consumata. E così, non stare a consultare il calendario, né a seguire le lancette del tuo orologio, perché, nell'aria che ti circonda, in ogni momento puoi sentire i passi del tempo che si allontana.
Bruno Vacchino, “Un matrimonio”, Novilunio Stampe Amatoriali, 2018