Gian Filippo Pizzo, in un articolo pubblicato su Carmilla sul finire del 2017 dal titolo Giorgio Scerbanenco: giallo, rosa e fantascienza, scrive che il libro di Sergio Donati è il “primo romanzo giallo italiano che riprende gli stilemi della scuola dei duri di Dashiell Hammett, Brett Halliday o Peter Cheyney” e già solo questo ha solleticato la mia curiosità, portandomi a cercare immediatamente il libro sulla Baia. Il sepolcro di carta uscì il 24 marzo del 1956, sul numero 373 de I Gialli Mondadori. Dopo il periodo autarchico dell’epoca fascista, quando si imposero e vennero imposti nomi come quelli di Augusto De Angelis, Alessandro Varaldo, Arturo Lanocita e Tito A. Spagnol per le pubblicazioni poliziesche, si dovrà aspettare gli anni Cinquanta per vedere nuovamente scrittori italiani sulle pagine della collana Mondadori. Il direttore di allora, il compianto Enrico Tedeschi, tentò l’esperimento tricolore, senza tuttavia ottenere il successo sperato. Tra gli autori proposti anche un giovane di belle speranze, Sergio Donati, non ancora affermato sceneggiatore cinematografico ma già alle prese con storie da inventare, magari ispirate dall’hard boiled americano. Tra il ‘55 e il ‘56 Donati scrisse di fila tre romanzi, tutti dai alle stampe per la casa editrice di Segrate: L’altra faccia della Luna, Il sepolcro di carta e Mr.Sharkey torna a casa. Dei tre è probabilmente l'ultimo a risultare il più riuscito ed intrigante, ma per il momento torniamo ad occuparci de Il sepolcro di carta...
Non è mia intenzione dilungarmi sulla questione della primogenitura del genere noir in Italia, resta il fatto che Sergio Donati tentò di portare lo stile “americano” anche a queste latitudini, ambientando Il sepolcro di carta a Roma e cercando di dargli una patina cosmopolita: night club, trafficanti di droga americani e francesi, pupe, macchine potenti e una spruzzatina di sesso, il massimo concesso per la morale dell’epoca. La storia inizia e finisce con un omicidio; nel mezzo indagano il commissario Crast e il giornalista di Roma Sera Walter Bonelli, entrambi alle prese con piste alcune da seguire, magari anche dandosi una mano vicendevolmente, seppur di malavoglia. All’avvicinarsi dell’epilogo, lasciando perdere gangster e nomi americani, arriverà anche la parola amore, perché in fin dei conti siamo in Italia, qualche lacrimuccia possiamo anche concederla. Come dicevo all’inizio, il libro non è un capolavoro, è un giallo tutto sommato ordinario, anche se scritto con con tutti i crismi del genere e senza scivolate o cadute di stile. Come ebbe modo di dire Donati stesso, alla fine per scrivere un romanzo giallo non serve altro che "suspense, la sorpresa e indovinare"1.
Sergio Donati ebbe anche l’intuizione di non concedere nulla al colore locale, probabilmente per enfatizzare il più possibile l’aspetto internazionale della sua storia. Paradossalmente, a distanza di così tanto tempo, sono proprio questi aspetti, per contraltare, ad apparire interessanti: ne esce un’Italia che tenta di “darsi un tono”, alla pari con i vicini francesi o addirittura con Chicago e l’America. La suspense non manca, questo è certo, tanto che il romanzo a distanza di dieci anni si è trasformato in un film, pesantemente riadattato: soggetto e scenografia furono curati da Tinto Brass, che rese la pellicola più ribelle ed insofferente verso il potere costituito rispetto al più “leggero” Donati. In ogni caso, sia Brass che Donati descrissero una Roma ben diversa da quella che probabilmente era descritta in quegli anni dai giornali cattolici e democristiani sotto l’egida del declinante pontificato di Eugenio Pacelli2. Va ricordato infine che Il sepolcro di carta venne pubblicato addirittura in Inghilterra nel 1958 con il titolo The paper tomb, nella collana The Crime Club edita da William Collins. Per quanto riguarda il nostro paese, nel 2010 la casa editrice di Segrate ha ristampato il romanzo nella collana I classici del giallo Mondadori, rendendolo così... un classico a tutti gli effetti, a cui si perdona volentieri qualche ingenuità, dovuta sia all'età dello scrittore che alla poca dimistichezza dei nostri autori con il genere. Ma probabilmente è anche questo a renderne intrigante la lettura.
In conclusione, ci sembra che Il sepolcro di carta abbia qualche cartuccia da spendere nell’ipotetica Enciclopedia del romanzo di genere italiano, anche senza voler parlare della carriera di Sergio Donati, che dopo questa esperienza come giallista virò con soddisfazione verso la carriera di soggettista e sceneggiatore, per numerosi registi italiani e stranieri, tra cui Sergio Leone, Luigi Zampa e Marco Bellocchio. Ma questa è un’altra storia...
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- Il sepolcro di carta, L'Oeil de Lucien