Ma torniamo a noi, per l’inferno c’è sempre tempo… o almeno così la penso io. Che a morire sia, a volte, semplicemente una questione di opportunità, sembra pensarlo Oddone Camerana: ci mostra il suo arrivo come un qualcosa che doveva succedere, quasi per caso. Chi resta a questo mondo si interroga sui perché e i per come, come se questo potesse far tornare il defunto tra i vivi.
Oddone Camerana, nato a Torino del 1937, ha avuto a che fare professionalmente con il mondo della grande industria e in esso ha ambientato alcuni dei suoi libri, tra cui il più famoso è probabilmente L’enigma del cavalier Agnelli. In tutti i suoi libri ha sempre avuto un ruolo importante il ricordo, tanche che una delle sue opere più riuscite è a mio avviso Non mi lasciare: Breve viaggio nell'universo della memoria. Sembra una mera nota bibliografica, la mia, ma era doverosa per inquadrare meglio l'oggetto di questa recensione. A questo romanzo, per dichiarazione stessa del suo autore1, è legata la morte per suicidio del figlio ventenne. Giovanni, questo il suo nome, si tolse la vita circa tre anni prima della pubblicazione de La notte dell’arciduca, avvenuta nel 1998 per Rizzoli. Nel libro, infatti, si parla del suicidio del tutto inspiegabile. Impossibile, a mio avviso, non fare a meno di notare tutti i parallelismi del caso, come se Camerana cercasse di esorcizzare i fatti della vita reale, riconducendoli in parte a fiction, in parte ad un esercizio di memoria. Esercizio, quest'ultimo, che viene reso ancora più paradossale quando l'autore si perde nella descrizione di vie, piazze e luoghi di Torino, quasi che temesse di vedersi cambiare la città sotto al naso, o di instupidirsi talmente tanto con l'età da non ricordare più nulla.
Prima che tocchi a me dimenticare qualcosa, faccio un passo indietro e torno agli aspetti prettamente narrativi del libro, parlando della trama. Siamo nella città sabauda, nell'anno 1910. Dopo essere rientrato da una festa, nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile, Jacob, il figlio ventenne del conte Ossoli si toglie la vita nel suo letto sparandosi alla testa con la pistola a tamburo del padre. A seguire gli sviluppi del triste evento Carlo Alberto Scalenghe, medico legale lombrosiano, che non potendo ormai più "curare" il defunto, cercherà di dare una mano a coloro che sono rimasti in vita: la madre, i fratelli e soprattutto il conte Ossoli. Quest'ultimo, infatti, ha a che fare con i sensi di colpa, convinto che il suo più o meno consapevole rapporto con la morte, i cui pensieri lo condizionano costantemente, abbia finito per portare il figlio a quel gesto senza senso, che non si sa spiegare se non così. Jacob, tra l'altro, credeva nell’esistenza del diavolo e ne aveva molta paura. E se fosse stato proprio il Maligno ad armare la sua mano? Il ragazzo era un brillante musicista, una bella testa, con tanti amici e interessi: difficile capire perché si sia tolto la vita, se non tirando in campo le forze occulte.
A me piace pensare di avere trovato una chiave di lettura dell'intero romanzo, quando Camerana cita Dostoevskij:
Io penso che molti suicidi ed assassini siano stati compiuti solo perché era già stata presa in mano la rivoltella. Lì pure c’è una pendenza di 45 gradi sulla quale non si può scivolare e qualcosa vi provoca a premere invincibilmente il grilletto
Il conte Ossoli e il figlio Jacob sono uniti più dalla morte che dalla vita, qualcuno ha fornito loro una pistola e uno dei sue non ha potuto fare a meno di utilizzarla… seppure su se stesso. Chi gli ha armato la mano? E soprattutto, ci deve per forza essere un perché? Parlavo, all'inizio, de La notte dell’arciduca come di un libro salvifico, uno strumento utilizzato dal suo autore per esorcizzare la morte di un figlio. Camerana fa sua questa possibilità, non cadendo però nel tranello dell'autoreferenzialità, riuscendo per quanto possibile a prendere le distanze, anche da un punto di vista temporale. Ambienta infatti il romanzo agli inizi del Novecento, evitando al contempo di piangersi addosso e staccandosi, per il gran finale, da ciò che lui stesso non ha vissuto. Non voglio togliervi la sorpresa della lettura, dove andranno a parare le ultime pagine lo si intuisce, ma penso che tutto trovi sintesi in un unico discorso: Camerana, quella cosa, non ha voluto viverla. O forse... morirla.
Da un punto di vista prettamente narrativo e stilistico, il libro ha numerose pecche, non è forse un capolavoro, ma io l'ho trovato molto poetico, quasi un inno alla vita. Capirete il paradosso, qualora decideste di avventurarvi con Ossoli tra le vie e gli abbaini di Torino. Mi chiedo infine se sia giusto farsi condizionare, nella lettura, dai fatti che riguardano la vita e le morti di Oddone Camerana, perché non è nemmeno detto che tutti debbano sapere del suicidio del figlio per approcciare la lettura de La notte dell'arciduca, ma è altrettanto vero che se uno sa della cosa, non può fare a meno di rimanere influenzato.
Non sarebbe giusto farsi condizionare dalla vita reale dello scrittore, per parlare di un romanzo di finzione, ma le due cose sono così legate che penso sia impossibile farne a meno. Chiudo usando le parole de L'indice dei libro del mese, nel quale la recensione del libro si chiude così: "Narrazione di confine e su argomenti estremi, La notte dell'Arciduca mostra come pochi altri romanzi l'impurità della finzione letteraria e ripropone - lo si è visto nei recensori - un vecchio problema, se serva o no alla comprensione dell'opera la conoscenza dell'autore e delle sue intenzioni, se chi legge debba comunque sforzarsi a un apprezzamento del testo che ne escluda le interferenze indebite". Io dico di no, ma se questo avviene tanto meglio. Anche per questo ho fin da subito pensato di scrivere questo testo, in modo che tutti siate edotti su questo strano connubio tra Camerana e il conte Ossoli, tra Giovanni e Jacob.
- Dietro l'arciduca il fantasma del nulla. di Stefano Giovanardi. La Repubblica, 23 aprile 1988.
- L'enigma della finzione, di Lidia De Federicis. L'indice dei libri del mese, ottobre 1988.