Poi, un giorno, ti capitano per le mani le Storie di spettri di Mario Soldati. Un libro anomalo, che infatti gli esperti di Soldati si son filati pochissimo (ma ce n'è una recente e bella edizione negli Oscar con nota al testo di Stefano Ghidinelli e introduzione di Giacomo Jori);1 e però urgente, e necessario, a ridosso com'è – esce nel 1962 per Mondadori, ma i racconti erano stati pubblicati nel «Corriere della Sera»a partire dal 1959 – delle Storie di fantasmi curate da Fruttero e Lucentini. Solo che l'antologia Einaudi era esplicita, e fin dal titolo, nel parlare di "racconti anglosassoni del soprannaturale": la ghost story veniva finalmente sdoganata in via Biancamano, ma a patto che rimanesse confinata tra le brughiere d'Oltremanica o nel New England di Lovecraft. Soldati, invece, la cala a Torino, a Genova, sul lago Maggiore, in val di Susa.2 E in un caso, almeno – un racconto di appena sette pagine, La borsa di coccodrillo – riuscendo a generare un senso di disagio, di abisso, che dà vertigine.
È difficile, de La borsa di coccodrillo, dire cos'è che turbi così nel profondo (non è detto nemmeno che faccia a tutti lo stesso effetto). L'azione è minima, e così l'elemento soprannaturale – posto, ovviamente, che ve ne sia uno. Fin dall'inizio (una stanza d'albergo nel centro di Genova, la camera che dà sul porto) tutto ciò che avvertiamo è incertezza, e qualcosa di indeterminato che stringe il cuore.
Preferisco verso il porto, perché, da quel lato, affacciandomi a qualunque finestra, di giorno o di notte, posso vedere il campanile romanico, i tetti di ardesia e l'abside di una certa chiesa. E questa chiesa, a non più di venti metri di distanza, stretta e come incastrata fra le vecchie case, mi commuove in modo particolare. Ma perché mi commuove? Ci ho pensato a lungo, invano. Perché mi commuove? Non so. Non riesco a capirlo.
Siamo ben distanti dalla ghost story anglosassone, e non solo perché quelle case affastellate, quei tetti di ardesia e il campanile romanico ci parlano di nord ovest e Via Francigena, di lini e vecchie lavande. Siamo lontani perché mai un narratore inglese avrebbe parlato di commozione. Avrebbe usato una negazione, come il termine unease, o uno dei tanti sinonimi di origine celtica o germanica con cui quella lingua riesce a esprimere ogni minima sfumatura dello straniamento – weird, eerie, uncanny. Ma la commozione è un'altra cosa, che della polarità costitutiva dell'Unheimliche – il familiare e l'Altro – privilegia, e decisamente, il primo corno. La familiarità, il ricordo d'infanzia non sarà dunque qualcosa che emerge sotterraneamente nei tratti dell'altro (magari con l'ausilio del dottor Freud), ma qualcosa di caro, di conosciuto e di antico, che diviene d'un tratto intollerabile e struggente. Siamo lontanissimi da M.R. James, e più dalle parti, direi, di Guido Gozzano. Non una variazione d'intensità, ma qualitativa: proprio un altro genere di spettri.
Che cosa ha mai di tanto affascinante questa chiesa? Che cosa mi ricorda la sua veduta? Oh, lo so bene che cosa mi ricorda. Trent'anni fa, esattamente, e proprio in questi giorni, mia madre mi accompagnò da Torino a Genova. Dormimmo una notte nella stessa camera, lei e io [...]. E dalla finestra di quella camera, allora per la prima volta, vidi la chiesa col suo campanile. L'indomani m'imbarcai per New York. Era il primo grande viaggio, la prima grande avventura della mia vita. Due lunghi anni, non avrei più rivisto mia madre né l'Italia.
Infine il narratore visita la chiesa, incastonata fra altri edifici: c'è una piazzetta da cui si vede il porto di scorcio, e tre "povere sartorie" con il loro "odore vecchio, muffito, chiuso e consolante". Entra, la navata è deserta. Su uno degli inginocchiatoi dell'ultima fila, quasi "lasciata lì per tenere il posto, e addirittura per segnale" è appoggiata una borsetta nera, di coccodrillo, da signora; "finissima, elegantissima", dal "fermaglio [...] liscio, geometrico, dernier cri. Insomma, una borsetta di Gucci, di Franzi, o di Hermès".
Istintivamente, la odorai. Shocking di Schiaparelli. Ossia quel profumo raffinato, penetrante, sensuale, ma insieme vecchio, triste, che sa in parte di chiuso e di muffa, e che ricordava, insomma, pur attraverso la sua fasciante squisitezza, l'odore delle povere sartorie. È un profumo che conosco bene, perché un tempo lo usava anche mia madre. [...] La cerniera scattò. La borsetta era foderata di camoscio beige. Ed era completamente vuota, a parte un biglietto di visita [...]. Ma non era un biglietto di visita. Era uno di quei cartoncini che si trovano nelle scatole delle sigarette Xanthia. E, su, c'erano scritte, a matita, con mano incerta e incolta, senza alcun dubbio mano femminile, queste precise parole: MARIO MARIO MIO. Oh, lo so benissimo, è forse il nome più comune, fra gli italiani di oggi. Perché avrei dovuto essere proprio io, il Mario dell'ignota che aveva dimenticato la borsetta nella chiesa di San Giovanni di Pré? Anzi. Non ero io, certamente. Ma ormai non ragionavo più.
Ora, un narratore inglese avrebbe forse trovato una soluzione più raffinata di questa borsetta trovata per caso, su un inginocchiatoio di chiesa. Il messaggio dall'aldilà (se di messaggio dall'aldilà si tratta) avrebbe potuto giungere dopo una più attenta e calibrata suspense (d'istinto, sui messaggi scritti inviati dall'altro mondo il primo precedente che mi viene in mente è Pomegranate Seed di Edith Wharton). E certo avrebbe ideato una chiusa meno brusca, col narratore che ad Alessandria, in piena notte ("non mi va di mettermi a letto con quella borsa in camera"), prende un taxi, cena in un bar-ristorante – squallido come tutti i bar-ristoranti di provincia – e getta la borsetta, avvolta in due giornali, giù nei gorghi del Tanaro in piena.
E però, riandando a tutte le storie di fantasmi che mi è mai capitato di leggere – e sono un'infinità – difficilmente trovo qualcosa di più accorato e terribile, nel suo laconismo, di quel MARIO MARIO MIO scritto in calligrafia femminile, incerta e tremolante, su un cartoncino delle sigarette Xanthia. Perché nessuno aveva mai cercato di descrivere l'odore che hanno i fantasmi, e da Soldati ora invece so che si tratta di qualcosa che profuma d'antico, di sartorie e Shocking Schiaparelli, e dell'interno in camoscio di una borsetta di Hermès; e perché i grandi scrittori si riconoscono dai dettagli, e solo un grande scrittore avrebbe potuto ideare quella scritta, con quella ripetizione del nome, l'assenza di punteggiatura, la posposizione del possessivo. Chiunque avrebbe potuto avere l'idea del biglietto dall'aldilà; Edith Wharton, prudente, lasciava la narratrice – e il lettore – ignari del contenuto. Ma solo Mario Soldati poteva pensare a un simile, terrificante, struggente miscuglio di fretta e indugio, di colloquialismo e forma, che fa omettere i segni d'interpunzione ma indulge nel pleonasmo di ripetere il nome, patetico come un'esclamazione da fotoromanzo e tenero come le prime prove di un analfabeta.
Sarà che nei paesi a tradizione protestante i fantasmi hanno sempre suonato come qualcosa di sospetto, reminiscenze della trovata papista per eccellenza: le anime in pena del Purgatorio, le cui sofferenze possono essere abbreviate solo da messe di suffragio pagate dai viventi. Il fantasma sarà allora una formazione di compromesso fra qualcosa di antico, che oscuramente ancora vive, e la negazione recisa del suo riaffiorare: qualcosa di perturbante e di inspiegabile – e dunque tanto più atterrente – da parte di una società che ha espunto il soprannaturale dalla propria quotidianità. Non così per Soldati, cresciuto dai gesuiti, che conosce benissimo gli altarini votivi per le anime purganti agli angoli di strada, l'ondeggiare dei santi in processione, l'angelo custode e la paura del fuoco dell'inferno - il soprannaturale cattolico, in altre parole, che ogni bambino che sia stato al catechismo riconosce come qualcosa di noto da sempre, familiare come l'aria che respira. E allora si sa - perché lo si sa - che le anime del Purgatorio cercano di mettersi in contatto coi vivi, e che lo fanno nei soli modi che conoscono: attraverso scritte vergate con calligrafia incerta, impronte di fuoco, volti che appaiono all'improvviso sui muri, nei giochi di luce delle infiltrazioni d'acqua. Non è un caso che la devozione per le anime purganti conosca un singolare rifiorire fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, come fosse una sorta di risposta cattolica allo spiritismo anglosassone: nel 1917, mentre in Gran Bretagna i parenti dei soldati morti in trincea si rivolgevano in massa a medium e spiritisti, a Roma apriva un Museo delle Anime del Purgatorio, che esiste ancora ed è visibile presso la chiesa del Sacro Cuore del Suffragio.3
Possibile, allora, che la reminiscenza di quel mondo attivi corde più profonde – "commuova", per usare il termine di Soldati – di quanto ogni bruma inglese o del New England sia capace di fare: Le Fanu o Henry James o Stephen King sono una gioia, uno stimolo intellettuale; lo squarcio del porto di Genova, una chiesa del Duecento e l'odore di una sartoria destano una nostalgia vaga, che stringe il cuore, come l'aroma di un profumo che non si sente da anni. Del resto, da queste parti, essere felici non è un diritto costituzionale, e dunque nemmeno un obbligo: si può gettare la borsetta nel fiume, tenersi i rimpianti, e lasciare il racconto senza un vero scioglimento.
(Storie di spettri comprende altri diciannove racconti, alcuni splendidi, altri meno, ma nessuno inutile; a dispetto del titolo, non tutti parlano di spettri in senso stretto, ma in senso lato sì: ricordi, tensioni irrisolte, fantasmi di amori perduti. Per la cronaca, Shocking de Schiaparelli è ancora in produzione, ininterrottamente dal 1936)
1 Mario Soldati, Storie di spettri, introduzione di Giacomo Jori, nota al testo di Stefano Ghidinelli, Milano, Mondadori, 2010.
2 Nel 1977 Francesco Franconeri farà a Soldati l'onore di includere I passi sulla neve nell'omnibus Mondadori Horror. 24 storie di incubi e paure, unico racconto italiano accanto a storie di Robert Bloch, Richard Matheson, Shirley Jackson, J.G. Ballard, Ray Bradbury e Jack Finney.