In Dicerie e pettegolezzi (2000) Sergio Benvenuto chiarisce come dicerie e leggende urbane appartengano al rumor di una memorizzazione collettiva intrisa di luoghi comuni, narrazioni ansiose ed aggressive che non fanno altro che alimentare paure ed ostilità mai sopite verso altri gruppi: dagli zingari ai ladri fino alle merendine tossiche, fino ai ritorni virulenti delle pandemie, dall’AIDS negli anni ’80 al Covid. Internet non ha fatto altro che ingigantire e velocizzare il fenomeno, trasformando le nuove leggende urbane in catene di sant’Antonio onnipresenti e pervasive. Ciò che mi preme sottolineare è come dietro alla diceria covi un impulso feticistico, un godimento per le penombre delle nostre società di fine e nuovo millennio.
Mi ricollego a Benvenuto e Bermani per introdurre un delizioso libretto della mia infanzia. Storie e filastrocche di Lunigiana, edito da Franco Muzzio editore nel novembre del 1985. Si tratta di una raccolta di storie orali che alcuni ragazzini della scuola media Dante Alighieri di Arpiola di Mulazzo hanno raccolto sotto la guida dell’insegnante Caterina Rapetti. I bambini della IB, nell’anno scolastico ’84-’85, hanno raccolto leggende urbane del territorio dalla viva voce dei loro nonni, poi, nell’aula scolastica hanno trascritto i testi e li hanno riproposti ai compagni, rinnovando il senso dei racconti. Come nota Bruno Pianta nella premessa del volume, i giovanissimi raccoglitori dell’Appennino Tosco-Emiliano sono figli di una scuola dell’obbligo in cui spuntano fumetti e cartoni animati, lontanissimi dal mondo preindustriale dei loro nonni; i ragazzi hanno ascoltato, poi si sono affidati a un loro linguaggio e hanno ridato colore e vita ai racconti. Ne sono usciti dei pezzi deliziosi per brevità e concisione, scritture non lontane dalle qualità del decennio tracciate da Italo Calvino.
Le leggende urbane raccolte in quell’area non sono diverse da quelle che si possono trovare nel libro di Bermani o in quelli di uno specialista come Jan Harold Brunvand; certo la cultura lunigianese è per sua natura composita, in parte toscana per l’amministrazione, ligure orientale per l’economia, emiliana per le influenze storiche dialettali. In quella striscia di terra fatta di fiumi e castagneti dimenticati è fiorita una letteratura minore di cui l’associazione Manfredo Giuliani ha dato conto fin dai primi anni ’70: oralità, prose brevi, canzoni, ninna nanne, giochi verbali, canti di questua, poesia religiosa. La prosa popolare è intrisa di magico e soprannaturale, le figure chiave sono quelle di tanta novellistica: il prete, il diavolo, persone comuni intrise nelle virtù cristiane, sciocchi d’ogni genere e stilizzazioni fiabesche. Per tornare alle Storie e filastrocche di Lunigiana, i componimenti della tradizione rivivono nelle scritture scolastiche in un mix originale di oralità e tema infantile. Su questo punto, prima di fare un breve spoglio di alcune novelle, vorrei insistere.
La scrittura scolastica (ancor più che la letteratura per l’infanzia) è (un po’ come per la letteratura italiana da edicola degli anni ’60) un oggetto scartato e raramente fatto oggetto di attenzioni e riguardi. Eppure le scritture di questo libro mi ricordano per certi versi quelle del Gianni Celati di Narratori delle pianure (libro coetaneo di questo Storie e filastrocche): la scrittura scolastica dei ragazzi della IB, per ritmica, mezzi espressivi e intonazione, ricorda molto la trasparenza, la rapidità e la concentrazione dei racconti di Gianni Celati (potrei citare anche Cavazzoni), quel senso di “sentito dire” tipico del narratore orale della fiaba; queste scritture infantili hanno la medesima ingenuità e attenzione a un senso quotidiano e banale della vita delle vicende padane tracciate dallo scrittore di Sondrio. Inoltre la scrittura scolastica (anche e soprattutto quella che non finisce in un libro ma impacchettata in scatoloni messi ad ammuffire nei sotterranei delle scuole statali), pur nel suo italiano spesso traballante, ripetitivo, povero, è ancora un gesto istintivo, talvolta anarcoide e liberissimo di espressione personale, verbigerazione di personaggi marionette, baruffe e dialoghi surreali non ancora omologati dalla pratica e dalle convenzioni.
Vediamo solo alcune novelle (una seconda parte del libro raccoglie anche proverbi e filastrocche scritte nello strettissimo e polifonico dialetto lunigianese), raccolte nell’area geografia dei paesi limitrofi all’area di Pontremoli (in particolare il comune di Mulazzo e dintorni). Troviamo una versione de Il lupo e la volpe, tra le fiabe più diffuse, collegata al ciclo del Renard medioevale; esempi di astuzie contadine (Il diavolo e il contadino), una gustosa messa alla prova del pavido resa con uno stile da film comico (La sorella del parroco), fino ai temi folklorici degli animali parlanti nella notte di Natale, o a quello antichissimo e moraleggiante del morto che accetta un beffardo invito (Leonzio). I testi più belli sono racconti di fantasmi, morti che si manifestano in specifiche località e tornano per manifestarsi ai vivi, o per riprendersi qualcosa che gli appartiene. Il cimitero è il set principe di queste novelle, alcune volte appare il cimitero di S. Martino di Mulazzo, ove sorge una bellissima Pieve diroccata del ‘200, conosciuta anche da Dante durante il suo esilio presso i Malaspina. Le notturne processioni dei morti (che in dialetto si chiamano andade, andate) sono vaghe e poco fissate in un tipo preciso, apparizioni che è superfluo dire portino sfortuna.
Ne La processione di Miettin (relativa alla zona di Castagnetoli), il protagonista (il nonno di Miettin) s’imbatte in diversi uomini vestiti con l’abito della compagnia (camice bianco e mantellina rossa) mentre camminano lentamente verso la chiesa. “Finalmente giunsero alla chiesa, ma con suo grande stupore, il nonno si accorse che gli uomini della processione, con le loro candele accese, stavano entrando nonostante che le porte fossero chiuse. Allora capì che erano morti. Il suo spavento fu tale che si ritrovò davanti alla porta di casa sua senza neppure rendersene conto”. Non meno vago, terrificante e divertente L’uomo e la processione, dove un altro uomo sente delle strane voci sotto la sua finestra la notte; la sera successiva, incuriosito, si nasconde dietro un albero e vede una processione di persone morte da molto tempo e che lui conosceva bene; li segue fino al cimitero di Mulazzo, finché inciampa e gli spettri si accorgono di lui. “Com t’è osà vegnir a disturbar mentre tornevin a ia nostra tomba, adès, t’gnirè con no.” Il poveretto urlava e piangeva disperato ma i morti lo trascinarono con loro nella tomba. Così, da quel giorno, nessuno osò più seguire le processioni, anzi le persone si chiudevano in casa e non uscivano per nessun motivo”.
Simile l’impianto di Bighelòn, con protagonista un personaggio disordinato coi calzoni in fondo al sedere (Bighelòn, appunto) che si imbatte nella solita comitiva oltretombale (all’inizio li scambia per degli sfaccendati dalle parti d’la Balanza, una località sopra Mulazzo costituita da due pianori sfalsati, simili ai piatti di una bilancia). “Alla fine, accorgendosi che erano morti, corse via così forte che prendeva, con i piedi, tutti i bisogni di capra che erano lungo il sentiero e arrivò a casa in un baleno”. La chiusa pare una comica accelerata dei film muti, così come Bighelòn è tratteggiato in modo fulminante, tipo un Guizzardi scomposto, o a qualche personaggio da fumetto.
Similissimo il racconto di Scarplin, altro personaggio comune di un sottobosco umano dalle forti radici contadine, viandante che rientra al focolare domestico dopo una lunga giornata di travagli e incappa nelle ombre con in mano i lumini. La gamba di legno narra di due sorelle che vivevano sole in una casa vicina al cimitero. Una delle due si rompe una gamba e per via d’una infezione gliela devono tagliare e mettere una di legno. Tipico di queste novelle la progressione implacabile del male: la sorella menomata muore, la sorella rimasta cade a sua volta dalle scale, gamba rotta, infezione, ecc. Invece di rifarsi un’altra gamba finta pensa di prendere quella dell’altra. “Vi andò una notte, quando tutto il paese era a letto, per non farsi vedere. Entrò nel cimitero, si avvicinò alla tomba di sua sorella e incominciò a scavare. Quando arrivò alla bara, l’aprì, tolse la gamba alla defunta, poi rimise tutto a posto e ritornò a casa”. Nel finale, prevedibile, la morta torna una sera a chiedere indietro ciò che le è stato sottratto. Ai piedi della scala, chiama la sorella, avvisandola del suo avvicinarsi con dei colpi sordi e onomatopeici che il narratore orale usava per mettere paura nell’ascoltatore, utilizzando anche un particolare tono di voce. La paginetta di questo racconto è, per me, tra le cose più belle che la letteratura fantastica ci abbia dato negli anni ’80.
Sintetizzando, i personaggi di queste novelle rinnovano un mondo pre-industriale lontano da topi giganteschi, pantere nere, baby sitter cannibali e coccodrilli nelle fogne. La modernità di queste scritture risiede nel loro essere perfettamente leggibili, espressioni di un quotidiano degli anni ’50 e ’60 che ritorna nella tradizione dell’affabulazione novellistica; a questo proposito, per capire meglio il senso di questi racconti torna utile uno scritto di Celati del 2006 sullo spirito delle novelle. Rifacendosi ai modelli del Novellino, del Decamerone e de Lo cunto de li cunti, Celati arriva al nocciolo della novella, dicendo cose che valgono senz’altro anche per temini scolastici intrisi di oralità. Si tratta di motivi intrecciati che portano dentro di sé le tracce di una memoria condivisa, accadimenti passati che servono a formare un nucleo minimo per giustificare il racconto.
Fole, dicerie, facezie giunte all’orecchio e utilizzate (nella loro forma originaria) per l’intrattenimento spicciolo durante le veglie serali o i raduni conviviali. Ripetizioni, varianti e chiacchiere di un sentito dire locale all’interno di un grembo comunitario non ancora intaccato dalle sintomatologie dell’estraneità del moderno. Novellistica di pura meraviglia per corbellare o lenire i fantasmi e gli impulsi intimi e collettivi. Per concludere, qual è il nocciolo di queste storie e filastrocche? Il nocciolo, credo, stia nell’incontro tra una generazione di nonni (persone nate all’inizio del XX secolo) e i loro nipotini; le voci dei primi ascoltate e messe su carta dai secondi per un tema scolastico, un modo perché un mondo in procinto di scomparire possa consegnarsi già quasi come materia fantasmatica e rimanere almeno in parte nel ricordo di chi sopravviverà. I nati degli anni ’70 hanno visto il trapasso ultimo di quelle generazioni, sono cresciuti cullati dai linguaggi sovrapposti di una modernità sempre più frammentaria e caotica, mescolando ricordi di famiglia con sigle dei cartoni animati e riscoperte di un cinema di genere già vecchio di decenni. Le voci e le storie (soprattutto in un’area residuale e marginale come la Lunigiana) di una piccola sacca geografica ferita da spopolamento ed emigrazione rivivono nel linguaggio da teatrino dei bambini, in spezzoni linguistici di bellezza inappariscente che sono quasi una sorta di romanzo memoriale e fantastico, revival folklorico tra i più belli di quegli anni.