Segreti che sono la chiave di volta sul quale poggia l’intero romanzo, costruito da Thomas Tryon in modo tale dare l'impressione che l'orrore possa nascondersi ovunque, anche nel campo di grano che cresce dietro casa. Lo sviluppo del libro ricorda quello delle stagioni e ho la presunzione di pensare che l'autore lo abbia volutamente concepito in questo modo. Anche la scrittura, raffinata e per certi versi ampollosa, contribuisce ad enfatizzare lo stretto legame che la trama ha con la natura. Gli agricoltori sanno che questa ha i suoi tempi: inutile essere impazienti, i frutti cadono quando sono maturi, non prima. Tra le critiche negative al libro, che mi è capitato di leggere dopo essere giunto alla parola “fine”, la più ricorrente riguarda l'esasperante lentezza con ci la trama si sviluppa. In certi momenti io stesso me ne sono chiesto i motivi, arrivando alla conclusione che anche questo aspetto sia da ascrivere alla riflessione più ampia legata al tempo che scorre, all'impazienza che a volte contraddistingue la cosiddetta civiltà. Thomas Tryon ci porta letteralmente nel New England, luogo nel quale si trovano i protagonisti del libro, anche con il suo modo di raccontarci le cose.
Siamo nel nordest degli Stati Uniti sul finire dell'Ottocento, in una delle zone più rurali del paese, tra boschi, corsi d'acqua e rigogliosi campi di grano. In uno sperduto villaggio del Connecticut chiamato Cornwall Coombe, va ad abitare una coppia di pubblicitari, con la figlia adolescente al seguito. Stanchi della vita e del lavoro di New York, acquistano e ristrutturano una vecchia casa, per farne la loro nuova dimora. Cornwall Coombe diventa il loro buen ritiro, il luogo dove sentirsi bene, al sicuro dai pericoli che spesso si nascondono nelle grandi città. Il granoturco che circonda il villaggio lo rende simile ad un'isola, nel bene o nel male: protegge dalle incursioni esterne ma al tempo stesso rende difficile ogni via di fuga.
La situazione idilliaca che si viene a creare, almeno nella prima metà de La festa del raccolto, sembra più quella di un romanzo rosa che di un horror. Con il susseguirsi delle pagine, via via che il grano cresce e si fa alto, i nuovi arrivati hanno modo di conoscere meglio gli abitanti di Cornwall Coombe e le tradizioni che ne condizionano l'esistenza. La vita del paese è scandita dai ritmi della natura e sottostare alle sue leggi è un obbligo per tutti. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è sempre possibile provare a rendersela amica, con qualche rito che si perde nella notte dei tempi. Tutto questo rende ascrivibile il libro al filone del folk horror, dove le ambientazioni rurali e le antiche tradizioni sono il carburante che alimenta l'orrore. Ned Constantine, sua moglie Beth e la figlia Kate, i protagonisti del libro, si troveranno ad avere a che fare con questi aspetti, ognuno a modo suo, con esiti del tutto diversi.
Di fronte al diverso ci sono sostanzialmente due atteggiamenti possibili: il conformismo o la divergenza. Entrambi sono l'approdo finale di questo romanzo, su quella sorta di isola chiamata Cornwall Coombe. Non aggiungo altro, per non spoilerare, rovinandovi la lettura dello splendido finale messo "in campo" da Thomas Tryon. Dopo la quiete della prima parte, la storia ha un'accellerazione improvvisa, con una ridda di avvenimenti che ricordano lo scoppio di un temporale: mistero e paura, ma anche fecondazione e morte. La festa del raccolto è un libro nel quale la Terra e le donne hanno un ruolo molto importante e delle quali Thomas Tryon sembra avere un profondo rispetto. Possiamo essere spettatori della loro forza, ma possiamo fare ben poco per contenerla: Ned Constantine se ne renderà conto solo alla fine, quando ormai sarà troppo tardi.
In conclusione, poiché sulle pagine di Mattatoio n.5 ci sono molti che apprezzano Stephen King, è impossibile non aver notato le analogie tra La festa del raccolto e il racconto I figli del grano, inserito nella raccolta A volte ritornano, pubblicata nel 1978 dallo scrittore del Maine. In un articolo del 1976 per il New York Times1, Stephen King non ebbe grandi parole però per il romanzo di Thomas Tryon, arrivando a dire che "Non è un grande libro, non è un grande romanzo dell'orrore, tantomeno un grande romanzo di suspense...". Tre "grande” che non provano nulla e che invece, al contrario, mi portano a dire che questo è un grande libro
- Stephen King, Not Guilty: The Guest Word, The New York Times, 24 ottobre 1976