E, sorpresa (ma non troppo): l'Emilio si conferma narratore di razza, anche in simili imprese (plausibilmente) dettate dalle scadenze del mutuo. Certo, come nei romanzetti finto-pulp dei tardi anni '50 – Nuda per il lupo, Il mio letto è una bara – anche qui si assiste a scene di una gratuità più unica che rara, interpolate al solo scopo di soddisfare il prevedibile target del volume; e la biografia in quarta di copertina annuncia chiassosa la "nobile origine dalmata" dell'autore, con l'evidente scopo di titillare le velleità da bas-bleu delle lettrici della classe più media. Ma c'è da immaginare (e l'aspetto intonso della mia copia ne è eloquente testimonianza) che la servotta incappata per ventura ne La donna di ghiaccio, certo con la speranza di fremiti fotoromanzeschi, ne sia rimasta presto delusa: perché al di là dell'ambientazione e del plot (un'Inghilterra un po' da cartolina – St James Park, un'isola della Cornovaglia – , un triangolo amoroso apparentemente trito), il romanzo di De Rossignoli, si parva licet, ha più parentele con Daphne du Maurier che con Barbara Cartland, e massimamente con quel gioiello assoluto che è Rebecca.
Con Daphne du Maurier, e con Agatha Christie. Poiché La donna di ghiaccio è anzitutto un giallo, con interessanti giochi metanarrativi (la protagonista è autrice di romanzi rosa, e vede i suoi personaggi prendere vita con sette anni d'anticipo rispetto a La metà oscura), ritratti inquietanti che cambiano di posizione, ferinità arcaiche; e piccoli dettagli (sempre, con De Rossignoli, prestare attenzione ai dettagli) che alla fine, all'atto di ricompulsare le pagine incriminate, mostrano come la verità fosse stata evidente, a saperla cogliere, sin dal principio.
Vista così, se la du Maurier ha fornito materiale nientemeno che a Hitchcock, e con Agatha Christie si è cimentato Sidney Lumet, c'è da rimpiangere – anche vista la data (1982) – che La donna di ghiaccio non abbia regalato il soggetto almeno a qualche tardivo giallo all'italiana: un genere che di lettere rubate e lasciate in bella vista aveva fatto il proprio marchio di fabbrica. Lascio ai lettori il gioco di comporre un ipotetico cast: c'è da sbizzarrirsi, fra la protagonista Priscilla Henderson (femminino apparentemente algido, stile Belle de jour), il marito Mark (professore di letteratura, ossessionato dal ricordo della splendida madre) e la simpatica (?) canaglia e tombeur de femmes Peter York, medico londinese e primo amore di Priscilla. E poi c'è Furia, la figlia del guardiano del faro, una ragazza bellissima e dagli occhi sognanti, inselvatichita dalla solitudine. Ecco, se dovessi dare il mio sommesso contributo al gioco, mi limiterei a far notare che, nel 1982, Ania Pieroni aveva venticinque anni: l'anno prima aveva recitato (parola grossa, ma ci siamo capiti) per Lucio Fulci, in Quella villa accanto al cimitero. E si può solo immaginare, in un ipotetico universo in cui la Fulvia Film avesse acquistato i diritti del romanzo, cosa un regista come Fulci (che in Una lucertola con la pelle di donna, del 1971, s'era dimostrato perfettamente in grado di rendere il fuoco che covava sotto la cenere dell'alta borghesia più British) avrebbe tirato fuori da La donna di ghiaccio – un libro senza nemmeno un morto, certo, e con un obbligato lieto fine; ma in realtà (a leggerlo bene) un teatro di dissimulazioni e tradimenti che colpisce al cuore l'idea stessa di armonia familiare, dove nessuno è mai quello che sembra, e ogni parola è un indizio. E spesso, anche questo, ingannevole.