La trama si sviluppa in un intreccio inconsueto, sovrapponendosi come un tappeto sui temi che caratterizzavano l’epoca d’uscita dell’opera, ovvero i primi anni Settanta, arrivando a canalizzare inconsapevolmente riflessioni sulle oscure attività dei servizi segreti d’Oltrecortina o sulla “mano pesante” della polizia durante le manifestazioni studentesche. Vieri Razzini (Firenze, 1940), noto come autorevole critico cinematografico e come distributore indipendente, esordisce nella narrativa con questo particolarissimo romanzo, che, con uno stile asciutto e rigoroso ma non piatto, fonde sapientemente l’elemento giallo con quello paranormale, riprendendo l’intuizione avuta vent’anni prima da Richard Matheson nello splendido Io sono Helen Driscoll. Tuttavia, una narrazione minimalista, forse fin troppo “povera” di particolari guizzi stilistici, tende ad appiattire le psicologie dei personaggi di un mondo comunque variegato come quello della colonia anglofona di Roma, composto di annoiate mogli di diplomatici, patinati artisti da salotto ed ereditiere libertine, dando l’impressione di un racconto concepito fin dall’inizio come un soggetto cinematografico, prima ancora che come un’opera letteraria.
Non a caso, gli anni Settanta sono stati, insieme al decennio precedente, una sorta di “stagione d’oro” del cinema italiano cosiddetto "di genere". C’erano gli Spaghetti-western, in taluni casi migliori persino di quelli hollywoodiani, le graffianti commedie di costume, per arrivare al poliziesco, all’horror e al thriller: una solida produzione media, seppur d’exploitation, che ha fatto da palestra e da trampolino di lancio a un piccolo esercito di preparati professionisti (Vieri Razzini è senza dubbio tra questi) e raffinati artigiani, gente che con solido mestiere riusciva a mettere in piedi piccoli capolavori pur trovandosi alle prese con budget limitati, spesso mettendo insieme grandi attori con piccole star dei fotoromanzi.
Eppure, nonostante tali premesse, Terapia mortale non è mai diventato un film, limitandosi a fornire lo spunto per quello che rimane comunque un capolavoro del cosiddetto giallo all’italiana, ovvero Sette note in nero, diretto nel 1977 da Lucio Fulci, abilissimo nello stravolgerne la trama trasponendola sullo schermo con maestria quasi hitchcockiana.