La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria è un libriccino di meno di cento pagine nel quale Guido Ceronetti ricostruisce, a modo suo, uno scottante caso di cronaca nera nella Torino degli anni ’30. Una vicenda che lui udì sicuramente da bambino e che all'epoca, nonostante l’ovvia censura di Regime, fu morbosamente seguita dai suoi concittadini.
La notte del 19 Agosto 1930 Rosa Vercesi strangolò a morte la sua amica-amante Vittoria Nicolotti, molto probabilmente in preda ad una sorta di raptus sadomasochistico, innescato dall’uso di cocaina. Arrestata nel giro di poche ore, oltre all'omicidio le venne contestato anche il furto di alcuni gioielli e fu condannata all'ergastolo, per poi essere graziata nel 1959.
Ceronetti inizia la sua “indagine” quasi fingendo di voler mantenere il rigore di un criminologo, ricostruendo i movimenti della vittima, della sua carnefice, dei testimoni e di tutti i personaggi di contorno che caratterizzarono la vicenda, mostrandoci la progressiva “discesa negli inferi” di due donne prima e di un’intera città poi. Il processo, scatenò, a causa della relazione tra le due giovani e delle circostanze in cui maturò il delitto, un interesse quasi morboso, nel quale da un lato si delinea una personalità estremamente sfaccettata come quella di Rosa, mentre dall'altro tutta l’ipocrisia piccolo borghese dell’epoca mostra il suo lato peggiore, quello che spinge a condannare senza appello ed al contempo a spiare dal buco della serratura: una sorta di catarsi voyeuristica giustificata con il moralismo, che emerge pesantemente sia dai verbali degli interrogatori che dalle cronache dei giornali. Un po’ come dire: se noi irreprensibili signore borghesi divoriamo avidamente ogni particolare, ad iniziare dai più scabrosi, è solamente per rimarcare la nostra superiorità morale su Rosa.
Ceronetti ci conduce nei meandri di questa tragica vicenda umana e processuale con la sua personalissima sensibilità che, pur non tralasciando nessun dettaglio nella ricostruzione dei fatti, piano piano fa sì che il cronista lasci il posto al raffinato intellettuale teorico del Tragico, che, pur ricostruendo puntigliosamente le vicende personali di Rosa Vercesi anche dopo la sua scarcerazione, trasmette al lettore un grande senso di pietà sia per l’assassina conclamata e condannata, sia per la vittima, le cui pulsioni sessuali hanno parzialmente fatto da catalizzatore alla tragedia, unitamente all'assunzione del tutto occasionale di cocaina. Una pietà che non ha nulla a che vedere con la compassione fine a sé stessa e che comunque non implica necessariamente l’idea di Perdono, per lo meno non nel senso che comunemente si intende. Semplicemente, delinea i contorni della complessa figura di Rosa e del suo ambivalente legame con Vittoria. Scaltra truffatrice di professione, invischiata anche per opportunismo in una relazione divenuta ingestibile la prima, imprenditrice colta e relativamente emancipata l’altra. Ceronetti non ci risparmia nulla, nemmeno dei referti medico-legali, dai quali si può intuire la violenza inaudita dei fatti, tuttavia lo fa attraverso il suo peculiare “occhiale malinconico” che dapprima ci conduce come una sorta di drone per la Torino d’anteguerra, mostrandoci le palazzine signorili, i tram, i cortili, ma anche i locali della questura, il carcere e le aule di tribunale, per poi trasformarsi in un testimone che, mantenendo sempre una rispettosa distanza, ci racconta degli ultimi anni di Rosa fuori fono alla sua morte nel 1981, lasciandoci intuire come tutti i meccanismi di transfert e di rimozione sedimentatisi nella sua psiche durante gli anni di detenzione, abbiano dipinto il quadro di un amore irrisolto e che, forse, senza la sua attività sfacciatamente truffaldina ai danni della povera Vittoria, avrebbe potuto svilupparsi diversamente. Infine ricorre ad un escamotage che avrebbe fatto inorridire Van Dine, autore delle regole del giallo perfetto, ricorrendo ad un pendolo per verificare le informazioni e le testimonianze acquisite sul caso, giungendo alla conclusione che Rosa non fosse nemmeno capace di intendere e di volere al momento dell’omicidio a causa dell’effetto della droga. Tuttavia, il quadro che si delinea non è un ritratto a tinte forti, piuttosto ricorda una foto in bianco e nero, a tratti seppiata, dal sapore piacevolmente rétro.
C’è un filo molto singolare e molto sottile che unisce La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria con ed alcune opere di un autore che con Van Dine e le sue “regole” è anche entrato apertamente in polemica: Raymond Chandler, che in Italia viene ancora troppo spesso frettolosamente etichettato come scrittore del genere “noir”.
Da Moby Dick in poi, una larga fetta di letteratura americana è imperniata sul rapporto tra l'Individuo ed il Fato, rapporto che, in una nazione nata e cresciuta sull'etica calvinista dell’autoaffermazione dell’individuo, è spesso tragicamente e patologicamente conflittuale. Ma se il capitano Achab diviene vittima della sua ossessione paranoica, Philip Marlowe osserva con pietoso distacco lo squallore umano nel quale il suo lavoro lo costringe ad arrancare, spesso mimetizzando le sue sottili considerazioni esistenziali con massicce dosi di sarcasmo. Chandler/Marlowe non condanna: osserva, rielabora e conduce il lettore in un mondo che talvolta può far pensare ad un girone dantesco nel quale è costretto a scendere, trasformandosi suo malgrado in una sorta di Virgilio post moderno e facendo compiere a quella che era considerata letteratura d’intrattenimento un salto di qualità inimmaginabile sino a pochi anni prima. Ciò che lo distingue dai suoi contemporanei, Hammett in primis, è "l’occhio": dietro il disincanto mai cinico di un quarantenne apparentemente sin troppo navigato, emerge la profondità di un intellettuale che si relaziona con la miserabile fauna umana che lo circonda attraverso il filtro di una sua forma particolare di empatia, che giudica senza condannare.
È singolare rendersi conto di come due autori apparentemente agli antipodi per origini geografiche, biografia e formazione culturale, abbiano un approccio così simile alla realtà e siano spinti ad osservarne i lati più oscuri cogliendone immediatamente il Tragico con la stessa sensibilità, un po’ come due macchine da presa dello stesso modello che inquadrano scene totalmente differenti: possono cambiare gli attori, le location e persino le pellicole, ma le lenti degli obbiettivi focalizzati sul mondo circostante no.