I personaggi dello scrittore ungherese sono intrappolati in una terra desolata e fangosa: sono disposti a tutto, anche ad aggrapparsi a un esile filo di ragnatela, pur di ridare senso alle loro esistenze. Il Lettore osserva dall’alto, con un certo distacco, queste anime morte, burattini nelle mani di un autore di finzioni-illusioni. Peccato che il burattinaio stia tirando anche i fili del Lettore: non appena ha varcato la soglia della prima pagina, è rimasto invischiato – vittima inconsapevole – in un intrico d’inchiostro e bugie.
Le carte del gioco sono predeterminate: il Lettore si renderà conto solo al termine della lettura che la partita era truccata. Allora gli ritorneranno in mente le parole dell’oste, il proprietario della squallida locanda che rappresenta il cuore pulsante del romanzo:
(…) non attribuiva particolare interesse alla prima versione di una storia, se non per prendere atto che forse “era successo qualcosa” (…). (…) bisognava aspettare che la verità da un momento all’altro apparisse: a quel punto anche gli altri dettagli dell’evento si sarebbero palesati, e così, a ritroso si sarebbe persino potuto controllare in quale ordine i singoli elementi della storia si fossero susseguiti.
Sembra quasi che l’Autore dia per scontato che il Lettore conosca già questi peccatori irredenti, questi ex-uomini abbruttiti dall’alcol e dalla mancanza di prospettive. Personaggi immersi nel fango dell’umana miseria, umiliati e offesi, stritolati dagli ingranaggi della Storia e del Potere. La loro Caduta, l’antefatto, resta al di fuori del margine della pagina: la narrazione è focalizzata sull’attesa della tanto agognata Resurrezione.
Irimiás, l’uomo del momento, il Messia in cui sono riposte le speranze di questi derelitti, appare allo smaliziato Lettore come un truffatore di mezza tacca, come un venditore di fumo: un pifferaio magico, un Woland con le pezze al c**o, una volpe accompagnata dal proverbiale gatto. Irimiás incanta e comanda a bacchetta la folla che pende dalle sue labbra: getta polvere nei loro occhi e promette di far germogliare banconote da rami ormai rinsecchiti.
Satantango affonda le sue radici nel suolo ungherese e nella realtà del Soviet, ma il Lettore si sente chiamato direttamente in causa quando Irimiás si lancia nel suo lungo sermone: la figura del truffatore si sovrappone a quella di altri demagoghi, loschi individui pronti a sfruttare l’umana disperazione pur di racimolare un po’ di denaro. Irimiás non si sforza nemmeno di nascondere il suo gioco perché sa che le sue vittime vogliono venire ingannate.
Il lettore deve attendere l’ultima nota del tango satanico per poter rimettere assieme i tasselli che compongono la storia. Nel frattempo, è costretto a respirare l’aria viziata della taverna, a bere palinka – più o meno annacquata – e a annotarsi le conversazioni degli avventori, nel tentativo di ricostruire una trama che gli sfugge tra le dita. Talvolta, prova la tentazione di lasciare la pista da ballo, di voltare le spalle a un narratore che tiene per sé troppe informazioni, ma i virtuosismi dello scrittore-musicista lo tengono inchiodato sul posto: questa prosa limpida eppure fangosa – uno spartito in cui si alternano parole alte e vocaboli da trivio, riflessioni esistenzialiste e beceri insulti, frasi incisive e di periodi fiume – possiede un fascino perturbante e diabolico.
Solo al termine della partita il gioco diventa scoperto: László Krasznahorkai permette finalmente al Lettore di osservare l'intera ragnatela. Il ragno-baro-demiurgo ha ricreato la realtà e ha dato vita a un tango satanico, a un intreccio di corpi sudati e anime morte. Ha riscritto la realtà, ma non ha annacquato la palinka-disperazione con l’acqua-speranza: non ha concesso via di scampo ai suoi personaggi e al Lettore. L’unica luce, in mezzo a queste tenebre infernali, è quella della scrittura: l’unica carta che resta da giocare quando il mondo va in frantumi, quando il caos prende il sopravvento.