Anche di Sergio Bissoli, oggi, pare resti poco. Su internet permangono - quasi delle reliquie - elenchi di libri ormai datati, le note recensioni sui Racconti di Dracula, l’omonimo canale YouTube pieno di video su sagre paesane, brevi cortometraggi folklorici con qualche ragazzina di paese discinta, o il medesimo Bissoli che da una penombra catacombale legge pagine ingiallite e discetta con espressione fissa e mesmerizzata su Frank Graegorius e altri arcani.
Bissoli è un autore di difficile collocamento, caratterizzato da insanabili fratture interne e aspre dicotomie che spesso degenerano in ossimoro. Sfogliando “Vita di scrittore”, contenuto nel volume Hypnos, è possibile reperire informazioni interessanti circa la sua biografia e le sue attitudini personali: abitante di una provincia profonda, rurale, Bissoli vive all’ombra degli amati genitori, consuma la sua adolescenza e giovinezza tra gli anni ’60 e ’70 godendosi il meglio del nostro cinema, leggendo i romanzetti gotici da edicola negli anfratti dei cimiteri, appassionandosi di magia e folklore, andando per fiere e sagre con altri lunatici del veronese. Bissoli non si allontana mai dai suoi luoghi, vive la sua vita a Cerea tra le pagine dei libri che ama, non lavora, o non riesce a trovare un lavoro stabile (per poco tempo fa l’odontotecnico), né una fidanzata, una moglie, inseguendo vanamente amori estivi in compagnia di campanari, becchini e cugini.
Bissoli si confessa spesso sulla pagina, abbandonandosi ad autocelebrazioni, o autocommiserazioni sessuali (la verginità persa tardi, le disavventure "monicelliane" con prostitute insieme al cugino) affidate a una prosa piatta e naif. Bissoli non si è mai evoluto, la sua scrittura è sempre rimasta identica a se stessa, a partire dai primi lavori sul finire degli anni ’60, fino agli ultimi negli anni zero. In compenso è un buon promotore del suo operato: si autopubblica, si rilegge e corregge con costanza, ma - ossimoro - spesso mandando in stampa testi mal impaginati, con vistosi errori fin dalle copertine. Il mondo di Bissoli è un mondo autoprodotto, marginale, campagnolo, in parte reazionario, non lontano dalle lamentele pasoliniane circa la dissoluzione di un’Italia contadina che scompare coi suoi costumi, le sue tradizioni, le sue malìe. Bissoli non conosce confini o remore: è scrittore, saggista (Conferenze letterarie non è altro che un lungo elenco di letture private), regista, poeta, fotografo. Le sue poesie, che non si discostano dalla produzione in prosa né per stile e né per ispirazione, sono un concentrato dei suoi temi: libri di magia, sogni erotici, descrizioni di campagne, casolari abbandonati, rituali magici, una venerazione ineliminabile per la figura di una donna evanescente. Quel che emerge dall’analisi di alcune opere dell’autore veronese è una scarsa consapevolezza, una a tratti fastidiosa autocelebrazione e un’assenza di evoluzione autoriale sia nelle tematiche, che nello stile letterario.
Eppure, per analizzare Sergio Bissoli e penetrare la scorza difficilmente agibile della sua produzione è necessario fare un passo avanti, senza fermarsi alle apparenze (il fastidio che molti lettori possono avvertire incontrando testi come Ricordi di Renzo Ferrari, o Critica al potere). Per prima cosa, bisogna considerare il punto di osservazione: è mai capitato di dover fare i conti con uno scrittore che - ad eccezione del testo Hypnos citato a inizio articolo - non ha mai potuto disporre di un lavoro di editing sulle proprie opere e nemmeno di una supervisione editoriale? Quando si parla di Bissoli, bisogna pensare a un artista autonomo e le sue opere risentono, nel bene e nel male, di questo aspetto.
Giuseppe Lippi, curatore del testo Il paese stregato, compì in quell’occasione un’operazione coraggiosa: da critico, si assunse l’onere di redigere un saggio omnicomprensivo dell’opera di Bissoli, componendo un testo che riassumesse l’intera vita letteraria dell’autore veronese. Giuseppe Lippi non poteva contare su pezze d’appoggio, in quanto nessuno aveva mai scritto a proposito di Bissoli. Lippi permise la costituzione di un canone letterario a proposito di un autore autoprodotto, che nessuna casa editrice si era mai nemmeno lontanamente sognata di vidimarne le opere su carta. Va detto: fu un’operazione coraggiosa, che pochi critici hanno avuto il merito e l’ardire di proporre. Lippi consacrò l’importanza di Bissoli sul terreno del fantastico. Ed ebbe ragione. Seppure la scrittura dell’autore di Cerea risulti sempre identica a se stessa, naif, la sua produzione è autoriale, libera dalle istanze del mercato editoriale, capace di esprimere un mondo - quello contadino - in decomposizione, salvando brandelli di quel tempo, di quella memoria collettiva, di quelle esistenze. Perfino i muri delle case abbandonate vorrebbe salvare Sergio Bissoli (si legga, a tal proposito, lo splendido volume “Case nel tempo”, un pastiche innovativo di immagini e brevi stringhe di testo).
Bissoli ricorda il primo Gogol, prima del trasferimento e dell’incarico come docente universitario, depositario di una tradizione paesana che emerge in tutto il suo vibratile e variopinto luccichio in Veglie alla fattoria presso Dikan’ka o nell’affascinante racconto orrorifico Vij. Ma in Bissoli non c’è una seconda vita, non esiste in lui l’equivalente dei Racconti di Pietroburgo. Sergio Bissoli rimane sempre al punto di partenza, resta dentro il suo paese stregato, nelle sagre paesane, nei suoi amori adolescenziali, nelle sue terre, tra i suoi parenti e i suoi fantasmi. E finisce con lo scrivere sempre la stessa opera. La novella La ragazza del paese stregato ricorda da vicino Sortilegio, ma anche Ketty e il problema: sono novelle di ispirazione gotica, dove l’elemento fantastico prende forma in maniera canonica, ma, nel corso della narrazione, subisce uno scarto, a favore di quello che è il messaggio personale che l’autore vuole trasferire al lettore.
Nemmeno è presente in Bissoli la capacità di interpretare il tempo presente: le sue novelle e i suoi racconti (si legga ad esempio la raccolta Racconti gotici rurali) sono ambientati in una landa atemporale, dove i traumi, la nevrosi, le idiosincrasie dell’epoca contemporanea non trovano spazio. Non esiste alcun attrito, in Bissoli, tra il frenetico mondo contemporaneo e i luoghi del gotico. Eppure i testi bissoliani non potrebbero esistere al di fuori di una mentalità moderna (ennesimo, affascinante, ossimoro). I temi classici della letteratura gotica vengono reinterpretati in maniera personale dall’autore: l’amour fou diventa l’eterna rincorsa di un femminile svanente, simboleggiato dalla presenza / assenza di una figura femminile di stampo narcisistico, che continuamente ammalia e abbandona il protagonista; l’eterno ritorno si ammanta di una connotazione psicologica e diventa il bisogno dell’autore di salvare quanto più possibile di un mondo in decomposizione, ma la destrutturazione del mondo agricolo prende le fattezze dell’angoscia nei confronti della morte, la scrittura si fa mezzo per salvare qualcosa di tutte le emozioni provate nei confronti di luoghi amati, genitori, parenti, donne a cui ci si è morbosamente affezionati; il paese stregato è, per un ennesimo rovescio, sia il luogo che incatena il protagonista a una dannazione, a un’impossibilità di coronare l’ennesima storia d’amore (e a un’incapacità di crescere, di diventare compiutamente adulto?), sia il luogo della memoria, degli affetti viscerali e tortuosi. Risulta possibile proporre un parallelismo tra Sergio Bissoli e un altro importante - quanto dimenticato - autore degli ultimi decenni nel campo del fantastico.
Tiziano Sclavi ha prodotto tutta la sua narrativa ai margini dell’editoria ufficiale, ricavando soltanto insuccessi e delusioni, quasi l’opposto di quel che gli sarebbe accaduto nel fumetto. A un certo punto ha smesso persino di cercare di pubblicare i propri libri e si è limitato a scrivere per sé, affidandosi a una notturna psicanalisi letteraria sulle proprie pulsioni depressive. Poi, quando l’esigenza si è esaurita, Sclavi ha smesso di scrivere. Ha smesso di scrivere tutto: fumetti, canzoni, libri. Il fluido, la magia (rossa?) si era esaurita, perduta per sempre. Sergio Bissoli è stato consumato dalla medesima esigenza. Lo ha fatto dagli anni ’70, fino alla fine degli anni zero, poi l’età, la promozione di sé, l’attività da youtuber semi ottantenne, l’hanno portato altrove. Entrambi hanno condiviso un’esigenza interiore, hanno inseguito un bisogno anticommerciale che non ha (quasi) mai trovato la giusta collocazione editoriale. Sono stati dei corpi estranei, scrittori troppo personali e irregolari, entrambi epigoni di una scrittura “a perdere” lontana mille miglia dai tanti scrittori che scrivono unicamente per finalità commerciali e il cui unico scopo è quello di andare incontro ai gusti del pubblico. Oggi l’horror italiano è un ambiente molto specializzato, frequentato da saggisti spesso partiti dal web e da piccole case editrici votate alla riscoperta e traduzione di piccole gemme dimenticate. La moda del weird sembra aver spadroneggiato, complice la riscoperta di autori come Thomas Ligotti e di serie televisive come True Detective, oltre al duraturo successo commerciale di Stephen King.
Il gotico di Bissoli non ha nulla da spartire con l’effimero del weird, categoria della stranezza di matrice anglosassone che continua a risultare riduttiva rispetto a una letteratura fantastica puramente italiana. Letteratura che, come evidenziano gli ultimi studi sulla materia (Lazzarin, Laghezza, Puglia) ha subìto una disseminazione, mutazione e deriva dei generi. E se Sclavi col postmoderno ha sicuramente fatto i suoi conti (anche se gli aspetti più personali, se non riusciti, del suo scrivere risiedono in una novecentesca rielaborazione di uno spettrale in realtà senza veri spettri, di una scrittura fatta di trapianti dove gli ultimi revenant altri non sono che quelli di un io affetto dai mali alienanti di una società in cui le forze del capitalismo più disumano sono i veri mostri - Sclavi utilizza spesso l’esasperazione, soprattutto nel fumetto, anche nella forma del pastiche, della parodia, della citazione di una materia culturale ormai globalizzata e riusata da tutti), il soprannaturale di Bissoli si ferma molto prima, non è sovraccaricato come quello di Sclavi, appare come qualcosa di più riconoscibile, semplice, ripetitivo. Bissoli popola i suoi paesi e le sue campagne di suggestioni, superstizioni, sortilegi campagnoli che vogliono riscoprire una cultura alternativa ormai soffocata dai meccanismi della globalizzazione. Come De Martino, Parinetto e Ginzburg, Bissoli indaga il folklore per salvare almeno la memoria di un passato (gli anni cinquanta della sua infanzia, gli anni sessanta e settanta della sua gioventù, il ricordo del mondo in cui ha vissuto con gli amati genitori) in cui ha consumato la sua formazione culturale.
La vita di Bissoli si è consumata al riparo dai grandi traumi della modernizzazione, non lo ha portato a vivere nella Milano disumana e alienante descritta da Sclavi, non l’ha fatto confrontare coi ritmi logoranti di un lavoro fatto per umiliare l’individuo (il Ligotti di Il mio lavoro non è ancora finito). Bissoli ha il passo lieve di chi è riuscito a mettersi al riparo, ha osservato da lontano la marea salire, arrivare a lambire e dissolvere il suo mondo, sciogliendolo in uno spettrale fatto più di assenze che di presenze, in un venir meno che marca proprio la differenza (più che l’originalità) di Bissoli rispetto a tutti gli altri. La frattura epocale tra gli anni ’70 e ’80, la dissoluzione di una certa politica, lo sgretolamento di un marxismo sovietico che segna il tracimare vittorioso del liberismo, le nuove ricette conservatrici, lo smantellamento dello stato sociale nell’Occidente in declino, la scomparsa delle utopie sociali, tutte queste cose arrivano nel veronese di Bissoli sotto la forma di una modernizzazione vaga e imprecisa che sgretola e dissolve i riferimenti di una vita.
Gli amici (figure spesso involontariamente comiche, vite minime e anonime anch’esse affaccendate in lavori umili e artigianali che non hanno più un riconoscimento sociale), i luoghi, le cascine, le chiese, le donne, tutto si sbriciola o si riduce a fotografie ingiallite, pagine di racconti in cui il fantastico è l’ultimo vero rifugio di una tradizione gotica fantastica ormai finita e defunta per sempre. Pur essendosi formato su certa letteratura da edicola degli anni ’60, in Bissoli non vi è mai una vera e propria amplificazione parossistica del tessuto narrativo, una trasfigurazione per eccessi dell’esperienza sensoriale del lettore. In lui l’incubo orrorifico, più che riformulare il canone del grottesco, del brutto, del deforme, è accompagnato da una rappresentazione sorvegliata dell’arcano, tanto che l’insolito si presenta con tratti discreti e familiari e l’unico vero orrore è l’informe sgretolamento della modernità.
Se Sclavi, da subito, si confronta e prova a dare una forma a questa dissoluzione, Bissoli continua a vivere dentro la sua proiezione fantastica di un mondo svanito, tra circoli di poeti di paese, stregoni, cartomanti, becchini, pittori, sedute spiritiche ai margini di qualche sagra paesana, alla ricerca di un amore, di un viso, di una donna, di un amico, del passato. La spettralità di Bissoli è anche una spettralità della lingua, del linguaggio, non ancora omologata ai gusti videoludici di tanto storytelling contemporaneo. Sclavi e Bissoli, non a caso, vengono entrambi emarginati dal sistema editoriale, in quanto intimamente autoriali, non piegabili a regole di marketing e a istanze editoriali. E se Sclavi vive dentro la Milano futuribile della moda, dell’effimero, del Garofano rosso e del carrierismo rampante, Bissoli si auto reclude in un nord/est paesano dove, appena oltre le edicole votive e i crocicchi gotici, appaiono le sagome dei petrolchimici tossici, delle piccole aziende, del lavoro sommerso, un nord/est già noir presto incubatoio di populismi xenofobi e secessionisti.