Mattioli intuisce dietro a questi lucori un’opacità di fondo, una finta solarizzazione: i visi delle donne, il trucco, gli occhi grandi, i capelli lunghi, i vestiti sgargianti, le tappezzerie multicolori, gli effetti psichedelici, le gelatine colorate, il sole, le ambientazioni esotiche o raffinate, un contesto borghese, metropolitano, o una campagna imbevuta dalle geografie occulte di un paesaggio bruciato dalle macchie solari, reso lava velenosa di un oltretomba mediterraneo permeato dai demoni meridiani di una cultura popolare socialmente e sessualmente maniacale. Le intuizioni di Mattioli incrociano il genere thrilling con il substrato antropologico di Ernesto De Martino e l’italian southern gothic indagato da Alan Lomax, ma ciò che ci interessa, ora, è l’idea che dietro ai colori sgargianti e allo sfarfallio del thrilling vi sia solo una solarizzazione che spegne i colori, che ne attenua la brillantezza e scivola in una landa desolata e mortifera; perché in fondo, dietro a tutti gli eccessi, al sesso sadico e abnorme, alla perenne voglia di svago dei personaggi un po’ leggeri e provocanti delle vari Fenech, Strindberg, Susan Scott, Evelyn Steward, vi è solo l’ultimo e definitivo colore del nigredo alchemico, della putrefazione e del disfacimento dei corpi. Queste note ben si accostano a un thrilling letterario di quegli anni come Orgasmo, volumetto che fin dal titolo spinge verso una lettura esasperata e fintamente vitalistica.
Lo scritto della Toscano, appena un centinaio di pagine, allungate da inutili descrizioni e dialoghi improvvisati e ininfluenti, vibra nella sua essenza (che non è la storia, non la trama, solita, con un avvocato di grido, un babbeo di ingegnere, dei volgari ricattatori tossicomani, un playboy da operetta e una bella ragazza morta al centro degli interessi e dei traffici di tutti) quando mostra il lato laido e tarantolato dei personaggi, tutti manichini senza psicologia, costretti dentro le loro rantolanti perversioni piccoloborghesi. E la Toscano non si fa mancare nulla, mettendo in scena anche un finto atelier di moda, in realtà alcova puttanesca per orge e ricatti fotografici (il personaggio di Etienne Rouget ha una sorta di legame mentale con la ragazza scomparsa, una trance oltretombale che apre brevemente il romanzo a quel mondo di occulteria degli anni ’70 - penso alle ricerche di un Pier Carpi tra i documenti di Cagliostro, prodigi paesani, medium di provincia, missionari esoterici, stregoni e ancora nuovi giovani irretiti dai segni stellari delle chiese sataniche californiane). Non manca l’ombra mutilatoria dell’assassino senza volto (qui armato di un gancio), a suo agio nell’estirpare le carni, dilaniare le budella, in una violenza visiva che tracima già nello splatter. L’accostamento tra una sessualità sempre morbosa e feticistica e l’insistita violenza dei delitti costruisce un parallelismo forte con quanto già diceva Bataille sull’erotismo (1957), ricercandone il senso ultimo nella natura violenta e biologica della vita, in un universo che le regole sociali e la ragione non potranno mai davvero sopprimere e contenere, o tanto meno accettare; l’erotismo è quel soccombere agli impulsi naturali, ai loro istinti violenti e ciechi, verso il disperato tentativo che due corpi copulanti fanno per sfuggire alla putrefazione della morte che ci attende, a quella viscida minaccia di materie in fermentazione, a quel tiepidume pauroso di vermi e uova che aspettano ognuno di noi nel profondo della fossa, e che già si manifestano come un sintomo sui volti pallidi e cerei delle donne manichino del thrilling (e che il sesso sia il presagio oscuro di un sacrificio, Bataille torna a ripeterlo quando parla della profanazione dei volti, della brutalità con cui la morte s’accanisce sulle parti segrete della donna, ne oltraggia l’intimità e la bellezza dei volti, ricordandoci come oggi, nella pornografia oscura e illimitata del web, ciò sia evidentissimo; la pornografia più depravata è a disposizione di tutti con un click, corpi di ragazzine profanati dalle voglie senescenti di vecchi già in stato di putrefazione, corpi avvinghiati nella danza macabra dell’orgia rituale…). La Toscano sembra quasi scrivere una postilla a Bataille, lasciandosi andare (nei momenti migliori, quelli forse meno pianificati) in grumi sanguigni, orbite vuote, estatiche descrizioni di un mondo germinante una finta vita di corpi già pronti per l’umidore senza fine della bara…
Questo sul romanzo del 1971…
E da allora l’ombra del nostro italian giallo si è affacciata ancora poche volte, ossessionando forse solo pochi di noi, ultimi superstiti di un mondo invaso dagli spettri (sonori, visivi) di un passato da cui non riusciamo, possiamo, vogliamo, staccarci…
Nell’inutilità di questo presente pandemico, nemmeno più alimentato dal miraggio di un futuro glorioso, qualcuno ancora prova, ogni tanto, a scrivere cose che ricordano la brutalità della morte del thrilling italiano e dei KKK…
Ci provano, il più delle volte non ci riescono, altre volte ci si avvicinano molto, ma sono rarissimi…
La scrittura thrilling (e qui non mi riferisco a quella paccottiglia psicologica di Carrisi, Baraldi, ...) è una liturgia sottile tra la profanazione, la laidezza e il mondo di tenebre della disperazione e della depressione più assolute…
Questa vena carsica di un’estetica della morte, questo occulto bisogno di abbracciare la catatonia della dissoluzione è continuata anche nel thrilling degli anni ’80 e ’90, come nella cultura italica in generale, penso al senso di smarrimento che si è prodotto nella nostra quotidianità, dopo quei decenni straordinari (e oscuri) che sono stati gli anni ’60 e ’70, dopo che le lotte di studenti e operai per la conquista di nuovi diritti civili hanno lasciato spazio a un sordo rancore reazionario, a una progressiva virtualizzazione dei rapporti e dei contatti, fino alle sperimentazione più estrema di una morte virtuale, nascosta dal maquillage bianco accecante del web. Eppure quel realismo oscuro è ancora lì, impenetrabile e prossimo a noi. Forse sono scomparse quelle forme acide e pop. La filosofia di tenebra del thrilling ha continuato a sopravvivere ai margini dell’alienazione contemporanea, tra le aperture e le vastità di una solitudine lavorativa che non lascia più scampo a nessuno. Flessibilità, la spettralità del lavoro virtuale, la connettività perpetua, il bisogno di superare qualunque limite fisico e percettivo, oltre i confini del sonno farmacologico… In questa mater dolorosa del nostro presente c’è chi ha provato a tracciare nuove vie tra gli enigmatici labirinti del thrilling, abbracciando le nuove regole del caos primigenio. Lontani dall’apparente solarità sessuale degli anni ’70, questi ultimi anni hanno visto aumentare la cupezza depressiva del thrilling. Tracce alchemiche di amore e di morte si ritrovano negli scritti thrilling di Giovanni Buzi (scrittore grandissimo, troppo prematuramente scomparso), dai primi testi, quasi astratti, fino al racconto La collana di perle celesti, oggi pubblicato in quell’oggetto non identificato che è Le dieci morti di tran-Silvana (ilFoglio 2011) e al capolavoro La signora dalla maschera d’oro (ilFoglio 2009). In Buzi la scrittura (come sarà per la regina nera Alda Teodorani, non a caso nume tutelare dello scrittore viterbese) costruisce grappoli semantici surreali e violenti, in cui l’amore estremo, il desiderio e la depressione si avvolgono in una spirale del desiderio che sembra costeggiare quell’erotismo sinistro dei corpi presagito da Bataille.
Anche in Buzi abbiamo un bailamme di delitti seriali e scenografici, così come candelabri, calze di seta, pulsioni dei corpi, lo sfondo di una Roma notturna vaga e sinistra popolata di corsi di yoga, estetisti, palestre con massaggi, prostitute di cristallo, party sessuali e un’aria di tomba gravida di sangue e marciumi in decomposizione. Tutto si riduce a frammenti narrativi, flash nervosi che ricordano le esplosioni di violenza e sessualità perversa dei vecchi KKK, in un’amalgama di insensatezza e chaos che si carica anche di echi spettrali, di vecchie ombre del gotico, con palazzi austeri e tarlati, in cui la luce dei candelabri si accende di una luminosità nera. Resti di un quotidiano in cui siamo smarriti, aggrappati alle teorie spettrali di Mark Fisher, alla necrofilia reazionaria indagata da Eco negli anni ’80, o agli intrecci tra passato e presente, tra morti e vivi, tra ricordo e oblio della nostra storia recente, buco nero di labirintici processi per stragi e zombi senza pace. Gli anni ’90 sono il declino definitivo del nostro futuro, il passaggio a un tempo disomogeneo e variegato, la fine di qualunque dimensione pubblica, un precipitare dentro un egoismo corporativo e incivile; tutto appare diverso, dalle facce incattivite della gente agli spot televisivi deficienti, da una spettacolarizzazione consumistica e globalizzata. Sotto i riflettori però, covano ancora le incertezze, le paure, i rancori di chi non riesce a stare al passo, le rivalse nei confronti di chiunque, la sensazione di un disfacimento allegro, di cinica frantumazione della politica. In queste lande, tra video neonoir, intermittenze chimiche, friggere di neon, luminarie magnetizzate, vetrine, motels domestici e la luce torbida dei frigo-bar obitoriali, cresce come un tumore la scrittura plastica, asciutta, al bisturi, di Alda Teodorani. Cresce ai margini, per piccoli editori specializzati come Datanews, Stampa Alternativa, Granata Press, occasionalmente anche Mondadori ed Einaudi. Prima in antologie, riviste, fumetti, poi in libri suoi, raccolte di racconti, esperimenti narrativi, romanzi brevi. La cosa più vicina ai KKK è proprio lei. Ricordo una fulminante raccolta di racconti, uscita nel 2001 per Stampa Alternativa, Sesso col coltello, in cui Alda si affidava a brevi prose (primi racconti, abbozzi di caratteri, prove minimaliste sulla punta di una Olivetti, esperimenti contratti di un thrilling che riprendeva il senso ultimo di quelli degli anni ’70 ma li lasciava vagare nelle lande ormai spappolate e decerebrate degli anni zero). Il tempo dell’utopia e delle rivoluzioni, così come quello delle bombe, è finito. Le multinazionali hanno vinto. Ciò che rimane è una solitudine mortale e un bisogno d’amore che non verrà mai colmato. I personaggi femminili di Alda portano dentro di sé (e le bastano poche righe) una verità ed un’urgenza sconosciuta a tutta la paccottiglia letteraria italiana dei premi letterari; in queste donne disperate e sole, tra uffici, mense, strade di notte, appartamenti desolati, vi è già tutto il nostro presente, vi è già quella straziante disumanità ritratta nel film Tulpa di Federico Zampaglione. Le donne di Alda sono delle cacciatrici affamate di sesso, carne, sangue, vampire senza denti acuminati, dotate di un sesso carnivoro e dal bisogno di annegare i propri demoni dell’oltretomba nell’alcova di un corpo, dentro il buio del sole nero di un sesso voragine, dentro il macello dei corpi maschili, scopati e distrutti, sezionati in gangli e nervi, in cerca di una microscopica sensazione di calore umano. Italian weird theory, italian thrilling, anni ’70, il pattume virtuale e desolato di oggi, hauntologie al collasso… Torneremo su Alda tra poco. Voglio parlare ora di un altro libro, edito da Luigi Cozzi per la Profondo Rosso nel 2014: Solo per noi vampiri, romanzo horror di Lamberto Bava. Solo per noi vampiri è un thrilling che si immerge nella disfatta totale del nostro oggi, in una filosofia del negativo ripulita dalle tracce pop e psichedeliche degli anni ’70. Monica e Loredana sono due ragazze di oggi, sole e diverse, abbandonate in un mondo sgretolato e veloce, popolato da gang di motociclisti, corse clandestine, punk, barboni, puttane, una miscellanea di allibratori, fighetti, capannoni e cani bastardi, in una rincorsa narrativa puntellata da una scrittura franta, veloce, accesa da partiture poetiche, scomposizioni sintattiche contagiate da un influsso allucinatorio che è proprio dei momenti migliori di Alda, di una sua organica attrazione per la morte, le aberrazioni innominabili, le ossessioni sessuali, e gli spasmi lesbici dell’inconscio che non a caso incantano le due protagoniste. Monica e Loredana non sono vampire, non hanno nulla di sovrannaturale, la loro solitudine le allaccia in una mitologia intima e astrologica che ha il sapore del sangue, il bisogno di trarre dalle ferite, dalle lacerazioni della vita il sugo di un’amicizia che brucia, ancora, come un sole nero, un astro in cui le visioni, le esplosioni dei colori e le nuove sensazioni, sono l’ultimo vero futuribile lascito del nostro italian giallo (Mattioli dixit). Solo per noi vampire è tutto qui, e ci basta e avanza per stabilire forti parallelismi con la letteratura da edicola dei KKK: la capacità di mescolare delitti efferati, il bisogno del sangue, atti di sesso sacri e terribili, un’eccitazione letteraria che è un inno a una depressione scura e stridente, più che mediterranea, ormai post-industriale e cadaverica. Eppure è proprio in questa esasperazione necroculturale che si agita il fantasma del thrilling che fu, nell’idea sterile di un sacrificio che si legge come un suono acido, non lontano da certi dischi sperimentali come Disco volante dei Mr Bungle, o Terrestrial dei Sunn O))) + Ulver, le colonne sonore paranoiche e immaginarie di Le mani destre recise degli ultimi uomini dei Secret Chiefs 3, Le nove ombre del caos degli Adamennon, i lavori di Buio Mondo e tutto l’opera della Spettro Family, o ancora nell’impenetrabile Delirium Cordia dei Fantomax, tutte pietre miliari di una stagione musicale recente e attuale in cui l’eco del thrilling italiano degli anni ’70 rivive in un suono dalle venature dark e horror, sorta di sabba psichico alimentato dalle necroculture del giallo, del gotico, dell’horror…
Segnalo, perché ho il piacere di farlo, il primo romanzo di Antonio Tentori, Il bambino che giocava con le bambole, edito con cura dalla Cut-up in questo brutto 2020. Si tratta anche qui di un ritorno alle origini del thrilling italiano, un omaggio a certo cinema (e perché no?), anche a quella letteratura da edicola dei KKK. Il romanzo è veloce, troppo lungo (si saltano un sacco di pagine senza perdere il filo) e una scrittura che non è personale come quella di Alda. Tentori ha ancora un plot, cosa che la Teodorani, intelligentemente, ha superato da subito. Tuttavia vi scorre qua e là un’aria familiare di vecchi traumi, antichi palazzi veneziani e una figura nerovestita che cala dal tempo ubiquo del cinema argentiano… Una lettura comunque piacevole…
La solitudine e la radicalità di questi personaggi letterari del neo-thrilling sembra connettere il thrilling con una certa fascinazione black metal, in particolare con certe derive di black metal theory indagate da uno studioso come Claudio Kulesko; il thrilling degli anni ’80 e ’90, spogliato da quella patina fintamente lucente degli anni ’70, sembra caricarsi di una luce opaca e oscura (così come le sonorità sempre più elettroniche e sintetizzate - attraversate ancora da quel nervosismo nero da horror rock dei Goblin), in cui anche le ultime illusioni di speranza sono sfumate nel nulla. Dietro ai festini, ai party, agli happening colorati e psichedelici sembra non esserci altro che un’atmosfera vaga e indefinita, in cui personaggi catatonici e depressi si abbandonano a un viatico al termine della notte, in una scoperta di piaceri sconosciuti o di un’autodistruzione radicale (penso a film estremi come Lacrime di Kali, Tulpa, Masks, Come una crisalide, Beyond the Omega) che abbraccia quel magma primordiale, quel mormorio del nero abisso tentacolare di cui è impregnata l’estetica (e la filosofia) black metal più anarchica; e in questo è affascinante leggere le brevi note che Kulesko ha dedicato al genere musicale, intravedendo delle connessioni con certe pellicole thrilling di questi ultimi anni, ambientati in una società ormai agonica, non più percorsa da alcuna ideologia o fede, in cui anche il vecchio satanismo o il paganesimo etnografico hanno perso senso; l’attività umana, frantumata e annichilita dal nuovo corso digitale di Facebook, Google, Amazon si è già svegliata in un postumano privo di speranze, lotte, desideri. Non resta che un nero ancora più totalizzante, uno spazio cosmico a cui nemmeno le mega corporazioni del digitale possono accedere, uno sguardo gelido che alla fine ingloberà tutto in un divenire, in una putrefazione che ci libererà dalle pandemie, dalle crisi economiche, dai vincoli del capitalismo finanziario e dal lavoro frantumato delle start up; dentro l’incoscienza fangosa e scatologica del nostro pianeta, della terra, della natura, si cela un anarchismo inesauribile, un’energia incredibilmente distruttiva e malata. Ed è forse a questa intensità totale che tende l’universo narrativo di Alda Teodorani, una ricerca difficile che costringe i suoi personaggi femminili prima a passare nei gironi del decadimento urbano, del nichilismo, di una sessualità mortifera in cui si cerca un riscatto mistico e spirituale, una decomposizione e ricomposizione di tutte le cose perdute, in un nuovo ordine cosmico da cui però non sarà mai possibile sfuggire.
Questa sete di vita, questo bisogno di morte, di nascita e dissoluzione lo si ritrova inalterato in uno dei romanzi più recenti (e più belli) di Alda. Ne ho già scritto altrove così: La mente e i suoi inganni. Dentro quelle cento pagine o poco più vive e pulsa ciò che è rimasto oggi del thrilling più oscuro: Alda, in una bella intervista concessa alla Zona Morta, racconta la genesi lunga e travagliata del romanzo. Un’idea che partiva da Alan Altieri, rivista e modificata pesantemente, poi lasciata nel cassetto per anni, nuovamente ripresa e mutata. Il soggetto mi ha richiamato alla mente un film recente che ho amato moltissimo, Tulpa di Zampaglione. Lì il personaggio della Gerini, manager rampante e aggressiva, cercava nel sesso selvaggio di un club privé la libertà. Qui, al contrario, un gruppo di donne travolte dalla vita, trovano nel sesso e nel loro life coach una gabbia da cui cercano di fuggire. Un misterioso assassino le uccide tutte, omaggiando fortemente il thriller anni ’80 di Lamberto Bava, penso in particolar modo a Le foto di Gioia e Morirai a mezzanotte, ultimi bagliori di un cinema che di lì a poco si sarebbe spento per sempre… Alda abbraccia il genere in tutte le sue forme e non ha paura di sporcarsi con la morbosità, la solitudine urbana e la morte. La sua scrittura, dai tempi dei primi racconti, pare aver raggiunto un nuovo grado di maturazione. Sempre asciutta, ma meno precisa, volutamente ondivaga, quasi un flusso di coscienza interrotto da squarci visivi e cinematografici. In poco più di 100 pagine Alda ci racconta dove siamo arrivati e come il thriller possa continuare a raccontare il lato oscuro della nostra società borderline, multipla, bipolare, dominata da un tempo del commercio che ci vuole burattini senza identità, fragili marionette pronte a implodere e a impazzire. Orgasmi, feticismo, sexy shop on line, Outlet notturni riempiti di manichini post-baviani”. Poche righe precise, tuttavia sento ancora di aggiungere un’ultima considerazione, ricollegandomi così all’essenza stessa dei KKK, in particolare di quelli thrilling scritti da Laura Toscano: in questi anni dieci di metastasi, invasione digitale nelle nostre vite, azzeramento sociale pandemico, questo romanzo di Alda, La mente e i suoi inganni (2018) è una fotografia febbricitante pre-pandemica, un mondo già svuotato dal bisogno reale di un contatto sociale e umano, annegato in una vita lavorativa vuota e automatizzata e una vita notturna da predatori, in cui uomini e donne si scambiano a vicenda il ruolo di predatori e prede, annegando i propri bisogni e le proprie dipendenze sotto fiumi di alcool e cocaina. La notte si carica solo di corpi inquieti e caracollanti come gli zombi romeriani, donne in carriera o mantenute, in autoreggenti e seni da sfoggiare come un trofeo, perse tra gli sguardi allucinati e frustrati di avventori non così lontani da quell’impotenza (e violenza maschile) del mondo analogico del mostro di Firenze…
Postilla pandemica:
Continuerò a scavare in questi lacerti pulp di un’Italia che non c’è più, o che, forse, ci ha lasciato questo presente alienato, oggi sotto l’effetto espressionista di una pandemia ansiogena e televisiva, fatta di virologi ed economisti, tra un’Italia ferma e crepuscolare e una rivolta crescente e clandestina di ristoranti e seggiovie, di chi non ci sta e non si vuole fermare.
In questi giorni, parlare, scrivere, pensare di questa letteratura automatica, non è poi così inutile.
Eppure non sono il solo a ragionare sul thriller italiano. Su Il Giornale di martedì 16 febbraio 2021 un bel pezzo di Matteo Strukul sul romanzo in uscita di Livia Sambrotta, nuovo nome che si unisce al pantheon di scrittori di genere del nostro paese. Strukul parla di una vera rivoluzione in atto nel genere thrilling, di nuovi stilemi nella narrativa dell’inquietudine. Strukul elenca inomi globali di Paula Hawkins, Gillian Flynn, Ilaria Tuti. Personalmente non sono un estimatore di questa letteratura dalle ambizioni internazionali, mix perfetto di psicologia, thrilling e giallo. Dopotutto si tratta di plot gonfiati, esageratamente lunghi, infarciti di dialoghi per tirare le pagine e soprattutto di una trama (e personaggi) che alla fine hanno sempre bisogno di una spiegazione chiara, un tirare le fila che ha più a che vedere col giallo che col thrilling per come lo intendo io. Il thrilling dei KKK era un impasto malriuscito di pulp primitivo, istinti di consumo bassissimi, e tempi produttivi risicati all’osso. Ne uscivano volumetti senza editing (zeppi di errori e strafalcioni), genuine perle di un gusto basso e di genere, in cui ci si sporcava le mani con scene di sesso, psicologia da bignami, personaggi legnosi, violenza gratuita ed esibita. L’anima nera e individualista di un paese come l’Italia che, anche negli anni delle utopie inutili del ’68, ha sempre nutrito un fascino morboso verso il proibito. Un proibito che oggi non c’è più, diluito in narrazioni anestetizzate da un editing appiattente e livellante. Tra i vari scrittori di thrilling italiani non si percepisce alcuna differenza, la loro è una scrittura media, di un italiano preciso e misurato, con personaggi costruiti con parametri che vogliono già soddisfare le regole dell’intrattenimento (seriale) di Netflix, Amazon prime. Ciò che manca davvero in queste narrazioni contemporanee è davvero un senso di libertà narrativa, libertà soprattutto dallo strapotere delle immagini, dal bisogno e desiderio di realizzare qualcosa che possa diventare subito una serie di successo da affidare al solito giro di attori manichini. La rivoluzione che vede Strukul io la vedo altrove. In questi lontani volumetti (più copiati, studiati, meditati da nessuno, ripeto, nessuno), in alcune cose di Tiziano Sclavi, in Alda Teodorani, che fin da subito elimina proprio ciò che tiene su questi inutili zibaldoni narrativi di oggi: il plot!
Queste scritture, realmente di genere, realmente calate dentro un immaginario visionario ed esagerato, non hanno mai attecchito presso il grande pubblico di lettori (esiste un grande pubblico di gente che legge?). Non importa, meglio così. Più che in Livia Zambrotta (comunque pregevole, ci tengo a dirlo), le inquietudini, l’incomunicabilità, i traumi del passato, il male di vivere dell’oggi, lo trovo nella cronaca nera (anche nelle riviste più becere), nelle cronache giornalistiche di un presente in cui ritrovo schegge di follia insensata che mi rimandano a certe trame deliranti della Toscano. Penso, in questi giorni, per motivi miei, ad alcuni libri che ho letto su episodi recenti, su fatti recenti come quelli di Bibbiano, con la onlus Hansel & Gretel dietro a quasi tutti i casi di pedofilia e satanismo saltati fuori in questi ultimi vent’anni (con la figura inquieta di Claudio Foti, psicoterapeuta post-lacaniano, guru di una terapia horror); e che dire della scuola elementare di Rignano? O dei suicidi di Sagliano Micca, non molto lontano da dove scrivo? Emanuele Fusi, in un saggio discutibile, e a tratti fastidiosamente reazionario, ben coglie il legame sottile tra certi pensieri progressisti e libertari delle sinistre di oggi e il delirio ideologico del post-’68, in quel calderone colorato di hippies, liberazione sessuale, musica e spiritualità new-age.
Tutta paccottiglia culturale dall’Inghilterra e dall’USA, un’onda gender fluida e indistinta che vede in Alfred Kinsey e la fondazione Rockfeller gli ideologi di un attacco contro la famiglia patriarcale (a favore di istinti pedofili mai veramente sopiti in un paese di adulti bambini) di cui le utopie anni 70 del Forteto fiorentino ( la figura carismatica e tutta italiana di Rodolfo Fiesoli, con la sua filosofia dadaista di rapporti omosessuali universali che in realtà nascondono l’ennesima forma di sottomissione rancorosa nei confronti della donna) e il caso di Bibbiano (discriminatorio soprattutto nei confronti di famiglie indigenti, fragili) sono una precisa fotografia. Fotografia di un esperimento sociale che mette davvero i brividi più di qualunque narrazione di fiction, e che mescola dentro di sé ideologie contro l’Autorità, liberazione sessuale e paccottiglia demoniaca degna del miglior KKK. Oggi, come allora, credo che il cuore sia in questo punto di contatto tra lo spirito dei tempi e la cultura che ne deriva. Punto di contatto maggiormente scoperto ed evidente in questi segmenti di true fiction che ci arrivano dalle periferie di un paese di mostri all’apparenza dormienti, che coltivano sogni deformi.