Dico subito che Parossimo (scritto da tale Rose O’Hara, in realtà Laura Toscano) è uno dei massimi capolavori della collana, forse l’unico romanzo in cui è possibile lanciare dei brevi sguardi nel dietro le quinte di questa letteratura automatica di massa. Dico questo riferendomi alla trama del romanzo, insolita e dal sapore metaletterario. La Toscano immagina anzitutto un’ambientazione isolata, un angolo di mondo tra Francia e Svizzera, in un paesaggio su cui tornerà anche Argento nel corso degli anni ’80 (penso a Phenomena e al finale alpestre di Opera); montagne innevate, un paesaggio boschivo incontaminato, pochissime persone in giro. Gli anni ’70 con le loro turbolenze qui nemmeno esistono. A Le Mule vive Petula, una bellissima e giovanissima ragazza bionda, che dalle discoteche e dalla vita frenetica di Edimburgo, è finita nel paesello sperduto per seguire la madre, una donna scialba di nome Frida che gestisce una piccola pensione. In questo angolo di mondo arriva un insolito cliente, un gentiluomo misterioso, tale Edwin Barret, che subito affascina la ragazza e sparisce dopo poche pagine dall’avvio della vicenda. Petula, novella detective casalinga, si intrufola nella camera dell’ospite (scomparso nei boschi) e rinviene uno strano dattiloscritto. E qui la Toscano mette a segno il primo colpo: una parte del romanzo è costituita proprio da questo dattiloscritto inedito che viene letto dalla curiosa Petula. Purtroppo per lei, la storia di Barret è una collezione di orrori e sadismi impensabili, una sorta di educazione immorale al delitto e alla perversione di un giovane della borghesia bene che, casualmente, si ritrova a spiare le gesta di un serial killer obeso e necrofilo, ossessionato dalle belle ragazzine bionde.
Nel manoscritto l’ospite scomparso ricostruisce la sua educazione all’omicidio, l’interesse morboso e macabro per la violenza e il sopruso. Il giovane Barret spia le gesta del seriale, suo vicino di casa, ne penetra nei più intimi segreti (il nome di questo figuro è Aloisius Grotz, un pazzo che ama ipnotizzare, sottomettere, violentare e uccidere le belle bionde; il suo modus operandi è curiosamente identico a quello che si ritroverà in un horror americano di fine anni ’70, da noi distribuito in dvd come Horror Puppet): il pazzo possiede le belle giovani e nel medesimo tempo le soffoca con della cera calda che spalma sul loro viso, in modo da ricavarne una maschera funebre che finirà in un immaginaria galleria delle maschere celata nella villa del sadico. Il giovane apprendista ucciderà in fretta il maestro e ne prenderà il posto, lasciandosi andare a una serie di considerazioni che, al di là delle mostruose fantasie messe in scena dalla Toscano, sembrano quasi, in filigrana, le pulsioni nascoste e i sentimenti di quel misterioso lettore che comprava e leggeva (di nascosto?) questa letteratura. Il giovane Barret è già il lettore celato dei KKK, un maschio affetto da un voyeurismo morboso che ricerca, nella cripta pulp di queste pagine legnose, una chiave per liberare una fantasia vivida e accesa che già popola le pellicole cinematografiche di allora. Gli istinti sadici e latenti di Barret sono simili alle fantasie represse di un lettore cresciuto nell’ombra castrante di una società che, in modo veloce e spasmodico, si scopre industriale e moderna, avvolta da istanze di riforme sociali che vanno a minare il tessuto precedente della rappresentazione sociale (il divorzio, l’aborto, le rivendicazioni salariali e lavorative, i nuovi bisogni dei giovani, un inaspettato benessere che apre la porta a nuovi stili di vita, a nuovi lussi, a una rivoluzione nell’immaginario sessuale di un paese dopotutto cattolico e castrante, in mano a una classe politica incapace di capire fino in fondo le esigenze riformiste di una larga parte della cittadinanza italiana). Nei KKK (così come in queste collane di veloce consumo) pare agitarsi un mondo in catalessi, in un profondo stato di ipnosi, dove la coscienza maschile (perché non mi ci vedo che questa letteratura sia destinata a un pubblico femminile, nonostante sia scritta da una donna!), già profondamente stressata e spaventata, si rifugia in ossessioni cartacee a buon mercato, trova conforto nei fantasmi di carne e nelle inconfessabili attenzioni per queste donnine dipinte, per questi maniaci bestiali, involontarie incarnazioni di una pulsione di morte che adombra già tutta la degenerazione paranoica di un mondo che ha come figli prediletti Charlie Manson, gli scientologisti, il reverendo Jones e una mistica del sacrificio e del sangue che arriva fino ai brigatisti rossi o ai deliri neo-fascisti.
Il secondo colpo (ma qui non sostanzio molto perché non voglio rovinare la sorpresa) la Toscano lo mette a poche pagine dalla fine, quando in qualche modo rimette tutto in gioco e ritorna sul discorso di una letteratura thrilling di consumo, fatta, pensata e distribuita più per eccitare che per terrorizzare; il personaggio di Edwin Barret diviene ora una sorta di fantasmatico alter ego della medesima scrittrice, un doppio di uno scrittore pulp italico di allora, costretto, per tirare a campare, a immaginare le peggiori perversioni, salvo poi scoprire che nessuno si spaventa davvero più e che forse, l’ultima carta da giocare è proprio quella del sesso, di un sesso monotono e ripetuto all’infinito, spia di una pulsione violenta e maniacale che impregna quegli anni (e il nostro spirito patrio) e ne costituisce un’occulta eredità. Che poi questa morbosità, questo parossismo delirante (a tratti persino surreale, tanto è spinto all’estremo, in una ricerca verbale che sembra volersi mettere sullo stesso piano di uno spappolamento della pellicola, spesso ricercato e inseguito da gente come Mario Bava, Elo Pannacciò o Carmelo Bene) vive sul medesimo piano della vita politica di allora; i KKK uscivano nelle edicole (e abbracciavano la svolta nervosa e spezzata del thrilling) quando l’autunno caldo era alle porte, e i toni delle contestazioni politiche erano ai massimi livelli; che oggi se ne dica, per quanto si minimizzi o si voglia far finta di nulla, quell’autunno caldo non ha eguali in altri paesi del mondo occidentale; l’azione riformista di una parte del paese voleva una trasformazione reale del lavoro e della distribuzione della ricchezza, in una ricerca di uguaglianza sociale che non ha più avuto eguali. Il nervosismo pop del thrilling, la sua velocità, l’estetica, la ricerca sperimentale (e ancora le musiche e le sonorità di quel genere, più avanti in una ricerca di lande sonore stranissime e impensabili, figlie di una ricerca musicale che si andava facendo nella musica contemporanea dei vari Ligeti, Maderna, Nono, Berio, Boulez, Koenig, Stockhausen), sembra assorbire la cupa deflagrazione, la sorda onda di violenza e sbandamento che si origina dall’ordigno piazzato in Piazza Fontana, bomba primigenia che genererà tutte le ombre, le paure, la rabbia di ciò che sarà dopo, alimentando anche una sorda disillusione nei confronti di uno Stato immobilista e paralizzato. Quel conflitto sociale, la violenza delle fabbriche, i corpi dilaniati dalle bombe (come nessun mutilatore riuscirà mai a fare), l’inizio di un lungo (e raffinatissimo) laboratorio della paura che avrà riflessi deliranti, fra militanti di sinistra pronti a tutto pur di sfuggire a una psicosi da golpe. La violenza incontrastata e fascista del terrorismo nero troverà un contraltare in quella ideologica e urbana del terrorismo rosso, arrivando a dei fermenti ideologici pazzeschi che finiranno per mescolarsi tra loro, come l’anarchismo nero di Franco Freda, forse punto di non ritorno in una distruzione dei postulati stessi dello Stato e di qualunque ideologia rivoluzionaria1. Per me non è un caso se, dopotutto, questo anticonformismo settario e terrorista sia filtrato, anche in modo involontario, nel thrilling italiano di allora. Un genere in cui le pulsioni violente e antisociali, oltre che il bisogno di liberarsi da un condizionamento psicologico, diventano carne viva e pulsante… Ma l’azione terroristica del thrilling vive al suo interno le contraddizioni stesse di una società capitalistica avanzata, dove, accanto ad esigenze libertarie e individuali, convivono i condizionamenti dei mass media, di una editoria e di un cinema saldamente in mano a gruppi di potere reazionari e poco democratici.
- E qui mi riferisco ai figli minori di Franco Freda, al gruppo di “Costruiamo l’Azione”, portatore di una accentuata carica antisistema in cui viene criticato l’uomo massa delle società borghesi avanzate, sorta di manichino asservito alle banche finanziarie e agli inganni di un mondo fatto di droga, riti consumistici, calze di nailon e coca-cola; di contro, il gruppo di “Costruiamo l’Azione” contrappone una società contadina utopica, una regressione nostalgica verso un universo arcaico non lontano dalle nostalgie di certa sinistra rivoluzionaria. In “Costruiamo l’Azione” si percepisce in modo netto la ricerca di un superamento delle ideologie (dell’antifascismo e del fascismo), in una comunanza di intenti e forze contro quello che è considerato il pericolo unico e omologante del Capitalismo finanziario. E che dire poi della radicalità di “Terza posizione”, alimentata da un identico rifiuto dei dogmi cristallini del capitalismo come del marxismo, in una fuga sacrificale da qualunque dimensione alienante e massificante. “La terza posizione” trova una forte affinità ideologica nelle dottrine di Corneliu Zelea Condreanu, imperniata da una lotta costante contro gli organismi devitalizzanti e parassitari di uno Stato burocratico e immobilista che detiene il potere a suo proprio ed esclusivo vantaggio. Anche qui troviamo una mistica del sangue, una disperata ricerca di una civiltà contadina idealizzata da contrapporre alle fucine di cancro delle cosmopoli nevrotizzate