Il libro è un baedeker che si apre sugli obitori affollati e le macerie della liberazione, tra mancanza di pane, gas ed energia elettrica, in uno sbandamento in cui i carabinieri superstiti si muovono in faticosi rastrellamenti tra campagne, malavita e contadini incattiviti. In quell’immediato dopoguerra (documentato in presa diretta da Roberto Rossellini) il sangue continua a scorrere come un fiume catramoso, quasi a irrorare e impastare il paese che verrà; le atrocità delle battaglie sono appena finite e bande sanguinarie di partigiani ammazzano borghesi, preti e fascisti, linciano e torturano donne; altri guardano alla moda d’Oltreoceano dei gangster, si imbottiscono di pessime letture, troppa brillantina e una passione smodata per le donnine, tanto da inforcare il crocevia tra la balera e i caricatori di mitra.
Le prime bande criminali di uomini mascherati e mitra in pugno come quelli di Barbieri & Bezzi, tipi che tra baldorie, musica e vino si lasciano dietro una scia di cadaveri maleodoranti; o ancora le gesta famigerate della volante rossa (formazione di ex-partigiani milanesi) e l’appartenenza ideologica a giustificare le violenze da una parte o dall’altra; erano i tempi delle cliniche private per radicali mutamenti d’identità, prime rapine organizzate, non più all’assalto di una gioielleria ma direttamente di una banca, di giovani sbandati travolti dal caos di un dopoguerra arroventato. Dalla banda Casaroli alle tradizioni feudali e catastrofiche di un sud schiacciato dalle varie camorre, mafie e onorate società, fino alla mano nera del vizio negli anni ’50 e ’60 col sottobosco dell’erotismo proibito, gli appartamenti delle squillo, le alcove mercantili e clandestine che cresceranno ovunque tra Milano, Roma, Torino, Firenze. Attorno ai nuovi criminali, alla nuova gioventù funestata da pensieri di ribellione e imprese da film gialli, tra delinquenza minorile, scassi, rapine, omicidi, comincia ad avvertirsi il malevolo influsso di riviste e produzioni cinematografiche dove il delirio della carne è esasperato.
Le periferie delle grandi città diventano alveoli umani di degradazione e nuova delinquenza minorile (Lutring, Vallanzasca, Turatello, Epaminonda), serbatoi di individui nervosi, edonistici, apatici. Lontana da questa follia criminale appare la fisionomia dei delitti commessi da una Leonarda Cianciulli, desiderosa di placare l’ombra metafisica di una morta indissolubilmente legata alle terre italiche, sorgente di oltraggi, foibe, deportazioni e linciaggi. Dalla sbriciolata retorica fascista, dal cadavere irrigidito e sbigottito del Duce, s’irradia come una forza oscura e nascosta fotografata anche dalle parole di un cronista come Buzzati. I suoi scritti sono oggi raccolti in un grande baobab mondadoriano a cura di Lorenzo Viganò e impreziosito da schede storiche e immagini d’archivio.
La cronaca nera di Buzzati abbraccia in presa diretta tutti i grandi fatti criminali dell’Italia del dopoguerra, fino agli anni ’60, fino al buco nero di Piazza Fontana. Da Rina Fort ad Arnaldo Graziosi, dalle fosse Ardeatine al mostro di Treviglio, fino all’assassinio di Kennedy, la morte misteriosa di Marilyn, o l’arresto della banda Cavallero. Nella prosa di Buzzati, come ben inquadra Viganò nell’introduzione, si scorge anche un aspetto segreto, intimo del delitto, una dimensione ulteriore che sembra trascendere la sfilza di dettagli di ammazzamenti, incidenti, sparatorie, e personalizza l’illustrazione alla ricerca di piccoli segni sparsi, di fattacci che disegnano una Milano (un’Italia) povera e ferita in cui le notizie si tramutano in favole nere, abbozzi di racconti in cui l’ombra della morte s’aggira per alberghetti pulciosi o riflessa nello specchio di un bagno; la sua passione per la nera non è altro che un inseguire ancora tra le righe del quotidiano l’ossessione per la morte, per la sua potenza oscura e cavernosa. Verso la metà degli anni ’60 Buzzati, da buon cronista, si mette su una volante della polizia e percorre le notti della Milano segreta ormai prossima a quella di Scerbanenco. Buzzati taccuino in mano e Alfa 2600 vanno a capofitto in quella manciata di sere del ’65 di cui resta un vivido ritratto di lucciole, protettori, ladri e commissari, luoghi e personaggi che dalla casba di Porta Genova arriva fin nel cuore del Duomo. I banditi e i gangsters di Buzzati si fermano in un sottoscala di putrefazione, anch’essi impotenti di fronte al vuoto assoluto che sconfina nell’horror di Piazza Fontana, dove ancora Buzzati cerca l’ombra di un demonio gotico che già non esiste più, che già è altrove, pronto a entrare dentro altre case, altre vite, altre anime, pronto a divorare e chiedere nuove vittime. In questa chiusa, perfettamente buzzatiana, ritrovo l’impressione che ho ricavato dalla lettura di un volumetto della collana de I racconti di Dracula. Il mostro delle nebbie, uscito nelle edicole nel gennaio del 1967.
L’autore è Red Schneider, alias Giuseppe Paci, magistrato palermitano che dimorò anche nella mia città, Vercelli, poi finì a fare il giudice a Roma per 40 anni. Scriveva documentandosi sui libri di geografia, spaziando su qualunque genere dell’epoca. “Il mostro delle nebbie” è una sorta di giallo moderno, ambientato in una Londra sommersa dalle nebbie che ricorda certi “krimi” alla Edgar Wallace. La nebbia (così come le atmosfere) è la vera protagonista della vicenda: giovani ragazze bionde vengono straziate da un Dracula moderno, un mostro senza volto che si aggira tra le insegne luminose della metropoli. A dargli la caccia, una ragazza determinata in cerca di fama, un giornalista alcolizzato e il solito ispettore di polizia. Paci descrive la nuova Londra, popolata da giovani evanescenti e carine, bambole di carne piene di desiderio e amore; e così, mentre le automobili continuano a scorrere lungo le strade cancellate dalla nebbia, altre giovani vengono brutalmente seviziate e una nuova psicosi si diffonde fra la gente.
“Londra è piena di persone apprensive che vedono il Mostro che si aggira con le unghie fuori dalle dita adunche… per le strade solitarie e deserte della città immersa nella nebbia”. Tra le pagine di Paci sembra aleggiare la medesima ombra metafisica intravista da Buzzati nelle sue cronache, “una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue. L’altra sera noi eravamo a tavola per il pranzo quando poche case più in là una donna ancora giovane massacrava con una spranga di ferro la rivale e i suoi tre figlioletti”. Così ne scrive il 3 dicembre del ’46 riferendosi alla strage di via San Gregorio e al caso della friulana Rina Fort. Buzzati vede i corpicini dei bimbi fermi come pietre, colti da un sonno improvviso, circondati da rigagnoli di sangue simili a polipi immondi.
L’atrocità insensata del delitto sembra svelare al cronista bellunese qualcosa che va oltre l’abitudine del sangue, come se da quella via San Gregorio milanese al numero civico 40 si liberasse un sottile e impalpabile panico. “Da qualche anno si direbbe egli si sia qui insediato da padrone. Potrebbe essere quell’ombra che scompare adesso dietro l’angolo, potrebbe essere quello sconosciuto che ci fissa per via senza apparenti ragioni. Un giorno o l’altro chi può escludere che all’improvviso non si affacci anche alla nostra porta? Non si può mai giurare. Egli gira invisibile, covando il male, e non sarà mai stanco. Bisogna scovarlo. Occorre togliergli l’aria, incalzarlo oltre i confini estremi della città, respingerlo fino alle lontane foreste del buio da dove è riuscito a fuggire1”. In realtà il male di cui avverte la palpabile presenza Buzzati è qualcosa di nuovo e diverso rispetto alle bande criminali del dopoguerra. Forse covava già dentro gli atroci eccidi del dopoguerra, dove bande di ex partigiani erano presi nel pieno di un delirio di sangue. La novità di questi delitti si staccano dalla bramosia di ricchezza, automobili e donnine dei vari Casaroli & C. Qualcosa del genere lo aveva capito anche Pasolini in un pezzo rimasto inedito (oggi nei Saggi sparsi mondadoriani), Diario del “caso Lavorini, sorta di originale contributo del poeta di Casarsa sulla cronaca nera dell’epoca. Pasolini costruisce un testo indefinibile che comincia con una poesia e si trasforma in una sorta di diario che segue a caldo l’evolversi della vicenda Lavorini (un dodicenne viareggino figli di un agiato commercialista – il ragazzino viene rapito a scopo di estorsione da un gruppo di ragazzi adolescenti iscritti al locale Fronte Monarchico Giovanile e poi ritrovato cadavere il 9 marzo del ’69, semisepolto sulla spiaggia di Marina di Vecchiano.
I giovani rapitori, per intorbidare le acque, cercarono di dirottare gli inquirenti su moventi sessuali, segnalando e coinvolgendo nelle indagini alcune persone piuttosto note di Viareggio, di cui una si suicidò. Pasolini è attirato dal caso dei ragazzi viareggini, nei quali vede delle vittime di una società repressiva, un’Italia provinciale attirata dalla morbosità e dall’incubo del linciaggio. “Sono una testimonianza anche loro del clima di lotta di classe che si è riacceso in Italia negli ultimi due anni e di cui le bombe sono state il momento culminante. Dello sbandamento della piccola borghesia, la protagonista del caso Lavorini, come dell’alta borghesia, la protagonista della strage Casati”. “Il mostro delle nebbie” di Paci, come la Rina Fort di Buzzati e il caso Lavorini di Pasolini, è qualcosa di più di un volgare assassino che si aggira nella nebbia a stuprare le donne. Le sue gesta creano sgomento e fanno girare a vuoto i discorsi dei protagonisti semplicemente perché sembrano precipitare in un sadismo freudiano, in una foia delinquenziale a cui non è possibile dare spiegazione.
Il mostro di Paci somiglia già a quello nerovestito di tanto cinema thrilling a venire, così come a certi casi di nera diversi e inspiegabili. Su tutti penso a quello di Simonetta Ferrero, aggredita e uccisa in modo inspiegabile nei bagni della Cattolica la mattina del 24 luglio 1971. Era un sabato e l’Università era quasi deserta. Doveva passare per conto di un’amica, perché lei, Simonetta, s’era già laureata due anni prima finendo pure assunta alla Montedison, dove già era funzionario il padre Francesco. Simonetta ha la testa altrove, pensa alle imminenti vacanze, la commissione alla Cattolica è per alcune dispense promesse ad un’amica. Di lei si perderanno le tracce fino a lunedì, quando il suo corpo verrà scoperto nella toilette delle donne. Simonetta è stata massacrata a coltellate, sui muri del bagno e sulla porta strisciate e unghiate di sangue. La scena è un fiume di sangue. Le indagini si perderanno dietro a individui sospetti, preti maniaci e mitomani da ricoverare al reparto psichiatrico. Resteranno solo quei quaranta fendenti dati sul corpo di Simonetta, sul segreto di un delitto senza ragione che scivolerà sotto un mucchio di altri casi.
Torniamo al romanzo di Paci: altre ragazze con mantelline rosso di cerata finiscono ridotte a manichini senza vita, esposte sotto le impietose luci intermittenti dei grandi magazzini. Alla fine le indagini porteranno quasi ad acciuffarlo, ma il mostro scivolerà in qualche cunicolo maleodorante, precipitando nelle acque del Tamigi, inghiottito e imprendibile. Le ultime concitate righe del romanzo non sveleranno definitivamente l’enigma, se non la breve sensazione della protagonista di aver intravisto un volto anonimo, forse di vecchio, i bulbi degli occhi itterici, gialli, accesi da un qualcosa di sovrannaturale. Così come per il delitto della Cattolica il mistero non verrà mai svelato.
- Di recente ho ritrovato questa lettura suggestiva del male nel finale di Halloween kills, ultimo sequel del fortunato franchising cominciato nel lontano ‘78. L’uomo nero di turno, Michael Myers, si aggira ancora una volta per le graziose stradine di Haddonfield, piccola cittadina di una middle class all’apparenza graziosa e civile, in realtà populista e violenta (come avrebbe gradito James Ballard). Nel finale, i probi cittadini si organizzano in bande di vigilantes e, dopo aver creato danni e ammazzato il solito capro espiatorio, ottengono l’agognato incontro con l’ombra assassina. Senza svelarvi troppo, il regista e co-sceneggiatore David Gordon Green ha l’intelligenza di chiudere i ponti con qualunque rilettura “realistica” della vicenda, chiarendo una volta per tutte l’origine astratta ed esoterica di Myers, svelando la notte senza fine che si cela dietro quella maschera senza lineamenti. Per i cittadini di Haddonfield non ci sarà mai pace, semplicemente perché con la paura non si può vincere. Al massimo imparare a conviverci!