A due mesi dalla sua uscita in libreria e dopo una ventina di presentazioni pubbliche, tra Emilia e Lombardia, sento fortemente il desiderio di prendere carta e penna per raccontare La pianura dei portici. Ho scelto di farlo qui, su Mattatoio n.5, dopo aver cercato invano un posto che potesse accogliere le mie parole. Ho condiviso il mio pensiero in vari contesti e ho notato che la situazione è fondamentalmente la stessa anche sulle cosiddette riviste indipendenti: "Sei un nessuno, passa oltre”.
Lontano dai furori delle avanguardie transalpine, lontano dal purismo formale degli spiriti tedeschi, lontano dalla convulsione intellettuale dei surrealismi gallici, dall’eversismo fatto bandiera dal futurismo romano e milanese. Ancora lontano, in tempi più recenti dal concettualismo ideologico dei lettristi e dei situazionisti parigini, dei pop-artisti e della loro apologia di tutto ciò che è lisergico, lontano dai fautori dell’intervento chimico sulla psiche in favore di una nuova visione del mondo, dal casualizzare del dadaismo e dal sorseggiare del movimento hippy: molto lontano da questi clamori della modernità, per tutto il Novecento lungo la duplice lingua di terra che racchiude il fiume Po, viveva un tipo di visionario di tutt’altra caratura: il matto di golena.
La Compagnia del Trivelin è un libro ingannevole, lascia presagire epica e mito, virando invece verso la commedia e poi la tragedia. Non mi spingo oltre, per non rovinare la lettura del libro, anche se già così è facile intuire il finale dopo aver letto i capitoli iniziali. Le vicende narrate da Giannetto Bongiovanni ci portano in Pianura Padana, ancora una volta in quella terra di confine che è il mantovano, quel non luogo tra Lombardia, Emilia e Veneto, la cui geografia mutevole, a seconda del grado di scolarizzazione, della memoria e dal punto di osservazione, si è portati spesso a considerare priva del fascino mitologico che invece concediamo alle province limitrofe, come Modena o Reggio Emilia.
Dopo il manoscritto di Giuseppe Bodini, i richordi di Pietro Ghizzardi e le difficoltà di Nerone, accomunati da una sorta di origine geografica e dal medesimo desiderio di tramandare ai posteri ricordi e considerazioni, rimaniamo in zona per occuparci di Clelia Marchi e del suo lenzuolo.
Con la recensione di Povero assassino, il primo giallo di Giuseppe Pederiali ambientato a Milano (Fratelli Fabbri Editore, 1973), abbiamo avuto il piacere di occuparci di questo autore emiliano. Per questa nuova recensione rimaniamo in zona, spostandoci solo “di lato” con Le città del diluvio, la cui trama si dipana tra il capoluogo meneghino e il delta del fiume Po.
Confesso, ho acquistato questo vecchio libruncolo della Rambelli più per il titolo che per altro. Il riferimento ai “vari” ministeri di Orwelliana memoria era palese e invitante, così come il prezzo. Ho sempre pensato che i Galassia siano in grado di riservare gradite sorprese, soprattutto sul fronte italiano e le mie recensioni lo dimostrano.
Torniamo dopo molto tempo a pubblicare un nuovo articolo su Mattatoio n.5, occupandoci di un bizzarro personaggio e del manoscritto da lui redatto, da titolo Dei tesori nascosti. Giuseppe Bodini, questo il nome del protagonista della storia qui narrata, si mise a dissertare su come scovare e scoprire preziosi tesori, sulle modalità per “levarli” dal terreno, segnalandone infine ben 28 in quel territorio stretto tra l’Oglio e il Po, in provincia di Cremona, sicuramente fecondo di uomini “particolari”, se non proprio di forzieri nascosti.
Nerone, al secolo Sergio Terzi, nasce nel 1939 a Villarotta di Luzzara da una famiglia molto povera. Primo di sette fratelli, si trova spesso a dover mediare tra un padre violento, una madre infelice e molte bocche da sfamare. Nonostante questo, riesce da autodidatta a ritagliarsi un posto di primo piano nel pantheon degli artisti contemporanei, al fianco di alcuni conterranei come Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi. Come quest'ultimo, oltre a essere pittore e scultore di straordinaria forza e suggestione, è anche apprezzato poeta e scrittore. L'analogia con Ghizzardi non termina qua, visto che la loro opera prima è un'autobiografia, che racconta non solo una vita fatta di tribolazioni, ma anche il rapporto con l'arte e le altre persone, la natura e Dio, le donne e il sesso. Molto diversa invece la forma, visto che, a differenza di Ghizzardi, Nerone scrive in italiano. Non è stato facile, questo il titolo della sua opera prima, pubblicata da Vallecchi nel 1978, rappresenta la somma delle difficoltà e delle peripezie che hanno reso l'autore non solo un autentico artista, ma anche una persona dalle straordinarie qualità umane.
«Borètto 24 aghosto 1986 mio testamento io Pietro Ghizzardi nato a chorte Pavesina di Viadana im provincia di mantova il 20 luglio 1906 im pieno possesso delle mie facholtà mentali dispongho dei mei beni mobili e immobili chome segue istituischo mia errede universsale Pechchini nives iolanda vedova di mio nipote Ghizzardi dante nata a sorbolo il 22 febbraio 1921».
Seguono le firme di Pietro Ghizzardi Pierino, della signora Pecchini e dei testimoni. Il documento definisce nelle date il percorso dello straordinario personaggio Ghizzardi, che si sarebbe concluso 4 mesi dopo, il 7 dicembre 19861 e che trova la sua naturale descrizione nel libro Mi richordo anchora.