E poi c'era Marmori. Oggi, di suo, in libreria non si trova più nulla, salvo le traduzioni che fece da Pierre Klossowski – del Bagno di Diana e delle Dame romane - e un saggio su Tamara de Lempicka; e il suo nome è a malapena ricordato nelle storie e nei memoriali del Gruppo 63, consesso nel quale – per chi ne abbia lette anche poche righe – è piuttosto difficile immaginarlo. Non che i primi romanzi – Lo sproloquio e Storia di Vous, usciti prima in francese e poi in italiano, quest'ultimo con titolo che cavalcava furbescamente la fortuna dell'Histoire d'O – abbiano veramente resistito al logorio del tempo; molto meglio le poesie (introvabili, ma qualcuna è riprodotta in un numero monografico del 1993 dedicato a Marmori dalla rivista La riviera ligure) o l'algida ed erudita eleganza de La Venere di Milo; e soprattutto l'incompiuto e postumo Gabriele, biografia romanzata di Dante Gabriel Rossetti le cui ultime pagine – frammenti per capitoli mai scritti – raggiungono vertici di bellezza struggente.
Con la Sugar, Marmori pubblica nel 1966 Le vergini funeste, che forse di Gabriele è l'antecedente più remoto: un saggio (ma è davvero un saggio?) sul femminino fin-de-siècle, centocinquanta pagine di chiome fluenti e fantasie claustrali, Salomè danzanti e sororità incestuose, intervallate da trentasei illustrazioni. Il tema era ben noto, e c'era, in Italia, l'illustre precedente di Mario Praz: ma della bellezza medusèa – ché di questo si tratta – Marmori non tentava una lettura genealogica, e ancor meno accademica. Marmori attraversa i testi, le immagini, come scavasse in un inconscio; le citazioni s'affastellano col gusto delle libere associazioni, giustapponendo con erudizione rara Rossetti e Khnopff, Rilke e Pitigrilli, Mallarmé e Gustave Moreau, come tante sfaccettature della stessa ossessione (che è, in primo luogo, dell'autore). Del resto, si trattava pur sempre dello scrittore che – partendo per Parigi come corrispondente, prima dell'ANSA e poi de L'Espresso – aveva portato con sé solo le opere complete di Gabriele d'Annunzio: scelta quantomai inattuale (erano i primi anni '50) e che lo tagliava fuori, a monte e senza appello, da qualunque conventicola engagée. A Marmori non interessava l'avanguardia (Lo sproloquio ha qualcosa di falsato, come un retrogusto di Ionesco fuori tempo massimo, e riesumato per compiacere la propria epoca), e nemmeno il pettegolezzo salottiero à la Arbasino (quasi coetaneo, e flâneur a Parigi negli stessi anni). Nei fatti, egli era un monomane, nel senso dato a questo termine dal suo amico Pierre Klossowski: poliedrico, versatile, ma in fondo sempre alla ricerca della stessa cosa. Che è poi un eterno femminino divino e terribile, vampirico e angelico, che in un capitolo de Le vergini funeste viene definito – e la cosa non può non dar fremiti a qualunque De Rossignolista in servizio permanente effettivo – attraverso l'endiadi "Lilith e Beatrice":
Il suo sguardo è attonito, febbricitante eppure limpido, e la sua bocca è socchiusa, come subisse lo spasmo o l'estasi mistica... Questo volto illanguidito, Rossetti lo posa sui corpi fluidi di Maria Maddalena, di Santa Cecilia, della Vergine Maria, di Francesca da Rimini, di Beatrice e di Rachele, su figure di ectoplasma, spettri necrofili, allegorie della statuaria funebre... Chioma nera e crespa, occhi magnetici, labbra carnose, volto duro e intorbidato, inglese e ellenico assieme ... [d]alla Ecate di William Blake alla Circe di Burne-Jones, dalla Isotta di Morris alla Galatea di Watts, questa testa cadaverica, monumentale, da Notte michelangiolesca, circola sui busti delle femmine del repertorio demoniaco preraffaellita, sino a Fernand Khnoppf... Questa valchiria cinquecentesca di tipo meduseo ... presta i lineamenti e la struttura anatomica per la ... principessa Sabra, per Desdemona, Lady Macbeth, Pandora, Mnemosina [sic], Lilith, Proserpina e Beatrice, donne funeste o benigne, ma tutte stravolte dalla tenace esaltazione algofilica del pittore.
Al di là di Rossetti, e per puro gusto della navigazione nell'arcipelago dell'intertestualità, non potremo non notare che quella chioma nera e quegli occhi spiritati, quell'algofilia e quell'innocenza languida trovavano, in quegli stessi anni, un'incarnazione pressoché perfetta nella bellezza inattuale e decadente di Barbara Steele: nel 1966, lo stesso anno de Le vergini funeste, la Steele interpretava Un angelo per Satana di Camillo Mastrocinque, che la dualità di Lilith e Beatrice incorporava e sussumeva fin nel titolo. Signorinetta vittoriana di ritorno dal collegio, Venere in pelliccia, Marina di Malombra in minore, la Steele veniva ipnotizzata, fustigava un giardiniere con indosso solo un cappello da cavallerizza (la nudità, ahimè, solo suggerita), e seduceva – l'accostamento è delizioso – un giovane Mario Brega. Sopravvivenze, anche queste.
(Ho scoperto Marmori per caso, nel 1999 – una copia di Gabriele non aspettava altri che me in una bancarella di Firenze, di fianco al Gabinetto Vieusseux – e ho comprato il resto, talvolta a peso d'oro, su e giù per la Baia. De Le vergini funeste ho omaggiato il titolo inella mia tesi di laurea, una vita fa; e con l'ultimo frammento di Gabriele concludevo l'introduzione del mio primo, pessimo libro. In giro, di Marmori, si trova comunque più o meno di tutto. La sua biblioteca, invece, pare essersi dispersa sui muriccioli della Senna: un amico di chi scrive, che di Marmori non sapeva nulla, trovò da un bouquiniste la copia di Un si funeste désir di Klossowski, prima edizione, appartenuta al Nostro, con dedica autografa dell'autore. Non ne faccio il nome: ma gode, e tuttora, di tutta la mia più cocente invidia)